«Chi produce ricchezza raccoglie povertà». La ricetta di Carniti

L'ex segretario generale della Cisl lancia una provocazione: «Trattiamo i salariati come gli altri, basta con i prelievi fiscali alla fonte, dichiarazione annuale dei redditi. Servirebbe a capire che tutte le risorse vanno destinate ai salari. Senza sconti fiscali a pioggia che servono ad aumentare le diseguaglianze»

Loris Campetti


Il Manifesto 12.1.08


Se tu fossi nella delegazione che incontra il governo sui salari, cosa chiederesti?


«Io - risponde Pierre Carniti - sono uno della riserva, non verrei richiamato neanche in caso di guerra. E non conosco abbastanza bene quale sia la posizione dei sindacati. Ma nell'ipotesi in cui fossi ancora un sindacalista non andrei a discutere misure fiscali che confermerebbero le contraddizioni e le ingiustizie vigenti. Non prenderei in considerazione la detassazione degli aumenti strappati nei contratti di secondo livello, chiederei di rivedere la legge che rende più convenienti gli straordinari, non mi batterei certo per portare l'aliquota Irpef dal 23 al 20%. Non farei che ripetere la scelta fatta con gli incapienti, quando si sono spalmati soldi su un perimetro troppo ampio e indeterminato, con il risultato di aver aiutato sei milioni di probabili evasori fiscali. Mi ricorderei che il sindacato rappresenta i lavoratori dipendenti e chiederei una cosa sola: ci avete spremuto e preso in giro per decenni, ora trattateci come gli altri, dichiarazione annuale dei redditi e niente più trattenute alla fonte». Una provocazione? «Sarebbe valutata una proposta eversiva. Forse, però, potrebbe convincere qualcuno che c'è una sola cosa da fare: destinare tutte le risorse disponibili a sostegno del lavoro. Senza demagogie, sapendo che aumentare a tutti lo stipendio di 100 euro richiederebbe una spesa non di 10 ma di 26 miliardi e non basterebbe a questo scopo l'aumento, giustissimo, della tassazione delle rendite finanziarie».


E' un Pierre Carniti determinato, combattivo, quello che incontriamo in un caffé romano di via Veneto dal passato glorioso. L'ex segretario della Cisl ora presiede una commissione (di Camera, Senato e Cnel) costituita in occasione del sessantesimo anniversario della Costituzione, «quella che all'articolo 1 scrive che l'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro». La commissione dovrebbe concludere i suoi lavori a fine anno con una relazione che «spero non sia più lunga di 100 pagine, con un'analisi dello stato della questione e l'individuazione dei punti più importanti».


Parliamo con Carniti di salari, del perché si è arrivati al livello attuale di svalorizzazione del lavoro, e di come se ne può uscire. Partiamo però dalla fine, cioè da quel che bisognerebbe fare oggi per invertire una tendenza decennale che vede lo spostamento delle risorse dal lavoro al profitto e alla rendita.


Perché sei contrario alla proposta che sembra egemone, non solo in politica ma anche nel sindacato, a spostare gli aumenti sul secondo livello di contrattazione?

Si può far tutto, purché sia chiaro l'obiettivo che ci si pone. Se si vogliono impoverire ulteriormente i salari seguiamo pure questa strada. Nulla vive per sempre, neanche i ricordi. Anche i contratti nazionali si possono sterilizzare. Ma per ottenere che cosa? Partiamo dalla nostra struttura produttiva: 6,7 milioni di lavoratori, il 40% degli occupati, sono in aziende con meno di 2,7 dipendenti e addirittura il 54% dei lavoratori opera in aziende con meno di 15 dipendenti, quindi non sono tutelati dall'articolo 18 e dallo Statuto dei lavoratori. Altro che contrattazione di secondo livello. Detto per inciso, bisognerebbe pensare a forme nuove di tutela per chi oggi non ne ha, e sono più che in passato. Altro che politiche di sostegno ai salari. Tutti hanno ormai capito che un valore troppo basso degli stipendi penalizza non solo chi lavora ma l'economia stessa. Dunque, non si può perseverare sulla stessa strada fin qui seguita. Penso altresì che la clausola messa in molti contratti di categoria, che sposta sul contratto nazionale una parte del salario non ottenuto per mancanza - oggettiva o soggettiva - di una contrattazione di secondo livello, non sia una buona scelta.

Cos'altro chiederesti al governo se facessi ancora il sindacalista?
Si parla tanto di produttività. Ma perché noi abbiamo una produttività più bassa degli altri paesi Europei? Non certo perché i nostri lavoratori sono meno bravi, abbiamo costruito la ricchezza della Germania e della Svizzera con i nostri emigrati. La causa va cercata altrove, nella nostra struttura produttiva. La Gran Bretagna che ha la City ha scelto di dismettere molte attività per puntare sulla finanza, la Germania si è specializzata sulle tecnologie e l'industria, il nord Europa sull'elettronica e via dicendo. E noi? Abbiamo puntato sul distretto della sedia e su settori in cui sono competitivi paesi come India e Cina. Insomma, con la frantumazione del sistema industriale e la scelta di settori non trainanti abbiamo inseguito flessibilità e competitività attraverso la compressione dei salari. Un suicidio, soprattutto in prospettiva. E abbiamo lasciato indietro scuola, università, ricerca. Ma anche il modello sociale va rimesso in discussione. E' impensabile - per i vincoli sociali, globali e ambientali - uno sviluppo come quello conosciuto nei primi trent'anni del dopoguerra, in una stagione segnata dall'irruzione di centinaia di milioni di persone nel mercato globale, delle merci e dei diritti. Il nostro debito superiore al Pil pesa sulla possibilità di effettuare politiche distributive. Ci si dice, e non solo più dagli Stati uniti, che le disuguaglianze aiutano la crescità. Ma sarà vero? Perché gli economisti non si cimentano su questo tema, e perché non ci ricordano che i paesi del nord Europa, dove forti sono gli investimenti sul welfare, sono quelli messi meglio, dove la crescita, pur contenuta, è ordinata e stabile? Nel «Vangelo della ricchezza», l'americano Andrew Carnegia sostiene che la massima forbice salariale tollerabile è di 1 a 40. Noi siamo a 1 a 3-400, e questo non aiuta uno sviluppo stabile, duraturo. Dalla metà degli anni Ottanta, non solo in Italia, la quota di ricchezza destinata al lavoro dipendente è diminuita mentre sono cresciuti profitti e rendite. Da noi questa strada - seguita al passaggio dalla stagione dei diritti a quella della flessibilità - è stata seguita senza moderazione e razionalità fino a portarci sull'orlo del precipizio. Il fatto che una parte importante del mondo oggi chieda diritti e una redistribuzione delle ricchezze, così come dopo le crisi petrolifere degli anni Settanta i paesi che detengono le risorse hanno cominciato a far valere i loro diritti, non giustifica che in nome della flessibilità e della competitività in Italia si sia arrivati a inventare 40 forme contrattuali diverse, alcune delle quali talmente eccentriche da non essere neppure sfruttate dalle imprese.

Dunque cos'altro chiederesti al governo?
Di lavorare alla ristrutturazione del sistema produttivo, aiutando le imprese a fare massa critica in un paese impoverito in cui esiste solo una grande azienda privata, la Fiat sopravvissuta alla cura Romiti e grazie alle risorse pubbliche, e due statali, Finmeccanica e Fincantieri.

Non credi che esista un nesso tra l'impoverimento dei salari, l'utilizzo esagerato degli straordinari per integrare lo stipendio e lo scandalo degli infortuni?
Dalla strage ThyssenKrupp ho capito che l'impianto di Torino andava smantellato e dunque le misure di sicurezza sono passate in cavalleria, in attesa di trasferire la produzione immagino nel Terzo mondo. I lavoratori hanno raccontato di turnazioni e organizzazione del lavoro intollerabili, accettati vuoi per non perdere il lavoro, vuoi per integrare un salario troppo basso. Da questo punto di vista, lo ripeto, la scelta di detassare gli straordinari è stata profondamente sbagliata: è ovvio che gli imprenditori ci si buttino a pesce. Non so se ci sia un nesso causale tra bassi salari che rendono ricattabile il lavoratore e gli infortuni, certo è che la situazione che si è determinata non aiuta la sicurezza. Ho anche sentito dalle dichiarazioni del magistrato Guariniello che alcuni controllori erano al tempo stesso consulenti dell'impresa. Questa è sicuramente un'altra concausa della tragedia gravissima di Torino. Ora, nessi a parte, vanno fatte subito alcune cose di buon senso per salvaguardare la salute nei luoghi di lavoro. Anche rivedendo decisioni prese in passato.