I professori che dissero "NO" al Duce
di Simonetta Fiori
"Sublimato all'un per mille", titolò sprezzantemente un giornale d'obbedienza littoria. Gli esiti del giuramento di fedeltà al fascismo - imposto ai professori universitari nel 1931 dalla regia di Giovanni Gentile - furono per Mussolini assai lusinghieri. Seppure sotto ricatto, su oltre milleduecento accademici, soltanto dodici opposero un rifiuto.
Sopra
questi isolati viaggiatori che attraversarono la terra del no è
scesa per settant'anni una nebbia densa di rimozione e imbarazzo.
Come se l'insidioso orizzonte da loro - soltanto da loro - varcato
rimarcasse l'ipocrisia, la fragilità, lo spirito di
accomodamento, anche la pavidità di cui diede prova
larghissima parte degli intellettuali italiani.
Ora quell'"un per mille" deprecato dalla stampa fascista dell'epoca - e utilizzato ora strumentalmente da alcuni giornali di destra che vorrebbero così dimostrare il radicamento del fascismo nella cultura - è al centro di due saggi che escono curiosamente quasi in contemporanea.
A
giugno sarà in libreria Preferirei di
no di Giorgio Boatti, che mostra in
filigrana il percorso dell'intellighenzia italiana attraverso dodici
personalità differenti per origine, carattere, modi di
pensare, attitudini sociali (Einaudi, pagg. 350, lire 28.000). Mentre
è già disponibile il documentatissimo volume del
tedesco Helmut Goetz, Il giuramento
rifiutato, I docenti universitari e il regime fascista
(La Nuova Italia, pagg. 314, lire 48.000), frutto di una puntigliosa
ricerca condotta per trent' anni in archivi, memorie, giornali,
corrispondenza privata, con inedite testimonianze personali che
aprono inattesi squarci sui tormenti di coloro che s'adeguarono.
Sbaglia chi cercasse tra gli irriducibili dei "pericolosi sovversivi". Gli accademici più a sinistra seguirono il consiglio di Togliatti, che invitò i compagni professori a prestare giuramento. Mantenendo la cattedra, avrebbero potuto svolgere "un'opera estremamente utile per il partito e per la causa dell'antifascismo" (così Concetto Marchesi motivò a Musatti la sua scelta di firmare).
Anche
Benedetto Croce, stella polare dell'antifascismo, incoraggiò
professori come Guido Calogero e Luigi Einaudi a rimanere
all'università, "per continuare il filo dell'insegnamento
secondo l'idea di libertà". Ci si mise anche il papa, Pio
XI, che su idea di padre Gemelli elaborò un escamotage per i
docenti cattolici: giurate, ma con riserva interiore.
Nonostante
questa ciambella di salvataggio, gettata dall'influente troika,
un'eroica minoranza disse di no. Nella minuscola schiera figurano tre
giuristi (Francesco ed
Edoardo Ruffini, Fabio
Luzzatto), un orientalista (Giorgio
Levi Della Vida), uno storico
dell'antichità (Gaetano De
Sanctis), un teologo (Ernesto
Buonaiuti), un matematico (Vito
Volterra), un chirurgo (Bartolo
Nigrisoli), un antropologo (Marco
Carrara), uno storico dell'arte
(Lionello Venturi),
un chimico (Giorgio Errera)
e uno studioso di filosofia (Piero
Martinetti). "Nessun professore di
storia contemporanea, nessun professore di italiano, nessuno di
coloro che in passato s'erano vantati di essere socialisti aveva
sacrificato lo stipendio alle convinzioni così baldanzosamente
esibite in tempi di bonaccia", lamentò l'esule Salvemini,
il più sanguigno tra i censori dei firmatari.
Diversi per estrazione sociale e radici culturali - altoborghesi e figli di tabaccaio, religiosissimi e anticlericali, socialisti e liberali, repubblicani e monarchici, ebrei e cattolici - i dissidenti sono apparentati da una spessa moralità e da un'indole naturalmente fuori del coro.
Nella vita di ciascuno di loro c'è un gesto dirompente - uno scatto ribelle, un moto di anticonformismo, forse una vena di follia - che appartiene, se non al loro personale carattere, al Dna familiare.
Il prete modernista Buonaiuti aveva sfidato l'autorità della Chiesa, il criminologo Carrara il potere accademico, affiancandosi a quel Cesare Lombroso emarginato nella comunità scientifica.
Lo
scienziato Errera aveva respinto nel 1923 il Rettorato
dell'Università di Pavia, "perché non si sentiva
adatto". Del filosofo Martinetti si racconta che, rivolto all'
esaminando Lelio Basso già condannato al confino di Ponza,
proruppe: "Ma io non ho alcun diritto di interrogarla sull'etica
kantiana: resistendo a un regime di oppressione lei ha dimostrato di
conoscerla molto bene. Qui il maestro è lei. Vada pure, trenta
e lode".
Quasi tutti - ad eccezione di pochi, Volterra e Ruffini, Venturi e Luzzatto - s'erano tenuti lontani dalla politica attiva, eppure animati da un radicato civismo che li spinse nel 1925 a firmare il celebre manifesto di Croce. Ricorrono nelle loro motivazioni una "repugnanza quasi fisiologica al fascismo" (Levi Della Vida), un'insofferenza morale "alla sua tronfia rettorica" e "alla sconcia apologia della violenza".
Rifiutarono il giuramento in quanto contrario alla loro coscienza, agli "ideali di libertà, dignità e coerenza interiore" nei quali erano cresciuti. "Giuramento simile io non mi sento di farlo, e non lo faccio", replica con semplicità il chirurgo Nigrisoli alle ripetute sollecitazioni del rettore.
Le conseguenze non erano da poco: perdita della cattedra, una pensione al minimo, persecuzioni, divieti, una vigilanza stretta e oppressiva.
Al
lettore di oggi il loro gesto ribelle - motivato da tutti con
sobrietà - appare quasi epico. Specie se raffrontato alla
genuflessione dei loro colleghi.
Tra coloro che giurarono fedeltà al duce figura il meglio della cultura antifascista, da Guido De Ruggiero ad Adolfo Omodeo, da Federico Chabod a Giuseppe Lombardo Radice, da Gioele Solari ad Arturo Carlo Jemolo, da Piero Calamandrei al mitico Giuseppe Levi. Alcuni erano persuasi che la battaglia antifascista andasse condotta dall'interno, ma per larga parte agiva il timore della miseria.
Lo
storico Goetz è abile nel registrare i contrastanti moti
dell'animo, rivelando risvolti inediti. Ecco Lombardo Radice "con
la folta barba bianca bagnata dalle lacrime" mentre confessa a
De Sanctis: "Coprirò di vergogna tutta la mia opera di
scrittore e di pensatore, ma non posso mettere sul lastrico i miei
figlioli giovinetti". Anche Omodeo si lacera fino al pianto "al
pensiero che non sarebbe stato più in grado di pagare gli
studi ai figli". Arturo Carlo Jemolo rivelerà,
quarant'anni più tardi, che la paura della povertà lo
spaventava più della guerra. "Ciò nonostante",
annota Goetz, "non cessò mai di rammaricarsi".
Calamandrei firmò perché considerava l'insegnamento "il
suo posto di combattimento", ma quella sottomissione gli costerà
"l'animo straziato".
Per molti studiosi non era facile rinunciare alla professione, che era parte fondamentale della propria vita.
Alessandro Levi, docente di filosofia del diritto, e il cugino Tullio Levi Civita, matematico insigne, decisero di giurare "ma con riserva", ossia scrivendo al rettore che "in alcun modo avrebbero modificato l'indirizzo del proprio insegnamento".
Il filosofo Giuseppe Rensi cedette per "attaccamento alla cattedra", ma questa firma sarà per lui un "cruccio costante".
Tra i professori che cambiarono opinione figura Giuseppe Levi, anatomista e istologo di fama internazionale, antifascista conclamato che aveva tenuto nascosto a casa sua Filippo Turati. Da un iniziale diniego, fu spinto a firmare dai suoi assistenti, "che temevano di perdere il maestro e la carriera". Levi giurò dopo che il ministro Giuliano gli aveva assicurato verbalmente che il giuramento era una pura formalità.
Profondamente
turbato, il papà di Natalia Ginzburg spiegò in aula il
suo dilemma. "E gli studenti, felici di vederlo rimanere, lo
ringraziarono con un uragano di applausi". Tranquillo cinismo
(l'espressione è di Gennaro Sasso) mostrò l'illustre
glottologo Giacomo Devoto: il giuramento ebbe per lui "il valore
di un bicchiere di acqua fredda".
La fenomenologia degli "accademici del sì" è ricca e variegata. Essa finisce per includere l'estesa tipologia dell'intellettuale contemporaneo, con le sue infinite astuzie e debolezze.
Tra "coloro che preferirono la carriera alla coscienza" (categoria eterna, stigmatizzata da Max Salvadori) eccelle Tullio Ascarelli, studioso precoce e plasmabile, il quale dapprima sostenne che "il vero atto di coraggio consisteva nel giurare" e in seguito si dimostrò ammiratore frenetico del duce.
Affollata la tipologia dei "disgustati", come Alfredo Galletti, che nell' atto del forzato giuramento esibisce teatralmente il guanto ben calzato nella mano, poi scaglia la penna sul tavolo, con schizzi d'inchiostro ovunque. O come Francesco Lemmi, allievo di Pasquale Villari, che rivolto agli scherani del duce tuona: "Firmo perché padre di famiglia!".
Non mancano gli inventivi nell'arte della scappatoia, come Vittorio Emanuele Orlando, ex presidente del Consiglio, il quale scelse la pacifica soluzione di andarsene in pensione. Ma quando tanti anni dopo dirà ad Edoardo Ruffini, il più giovane tra i Signori del No, "noi che abbiamo rifiutato il giuramento...", il suo interlocutore lo raggelò: "Credo che tra la sua richiesta di pensionamento e il rifiuto del giuramento di mio padre (ndr Francesco Ruffini) vi sia una differenza...".
Anche Antonio De Viti De Marco, docente di scienza delle finanze, scelse il "collocamento a riposo", ma esprimendo pubblicamente le ragioni del dissenso. Da Cambridge l'economista Piero Sraffa comunicò al ministro dell'Educazione Nazionale le sue dimissioni da ordinario di Economia politica a Cagliari (aveva vinto la cattedra al King' s College): era il primo novembre del 1931.
In
quei giorni partivano le lettere con l'invito a presentarsi in
Rettorato per il giuramento. Ma forse quel gesto era del tutto
casuale, se quarant'anni più tardi Sraffa scriverà a
Goetz: "Non mi risulta di aver dato le dimissioni da Cagliari
nel novembre del 1931, ma forse sbaglio...".
Alla metà
degli anni Sessanta, a favore alla piccola schiera di irriducibili,
ci fu chi diede battaglia, proponendo che i loro nomi fossero
scolpiti sui muri delle università italiane. Si chiamava
Ignazio Silone, e chissà cosa passava per la sua mente.
(La
Repubblica, 16 aprile 2000)