di Emiliano Fittipaldi
Commercianti. Liberi professionisti. Imprenditori della sanità. Mentre la crisi piega le famiglie, le loro entrate crescono ancora. Così il 10 per cento degli italiani possiede metà del patrimonio nazionale
Al
Porsche Center di Milano alla fine di agosto 2007, mentre il Paese si
avviava velocemente verso una nuova stagnazione economica, si
brindava a spumante e caviale. Spulciando i registri commerciali il
titolare aveva scoperto che in 12 mesi ben 456 milanesi erano entrati
nel concessionario e staccato assegni
a cinque zeri
per portarsi a casa Cayenne fiammanti, le nuove Boxster e altre
fuoriserie assortite. Vendite record, mai registrate negli ultimi
anni. Il profilo dei clienti è variegato: imprenditori,
avvocati
e commercianti
vogliono
il Suv e la 911 coupè,
mentre designer,
pubblicitari
e partite
Iva preferiscono nettamente Cayman e Boxster,
macchine che possono costare oltre i 120 mila euro. "Le nuove
professioni tirano", ammettono i responsabili, "il boom ha
coinvolto anche i negozi di Padova, Treviso, Torino e Roma".
Se
l'Italia è in affanno e l'economia boccheggia, il
declino non si comporta certo come una livella.
L'inflazione rosicchia i salari di milioni di impiegati, operai e
dipendenti dei ceti medio-bassi, ma lascia indifferenti categorie
protette che continuano ad accumulare ricchezza. Da un lato la
sindrome della 'quarta settimana' si è via via spostata alla
terza, dall'altra poche professioni anticicliche macinano più
euro di prima. Fare l'identikit
dei neo Paperoni
non è operazione facile, visto che negli ultimi anni
economisti e istituti preposti hanno analizzato soprattutto i nuovi
poveri e il tramonto del ceto medio. Incrociando statistiche e
dossier poco noti, però, è possibile tracciare ritratti
fedeli.
In primis, i
ricchi nostrani hanno caratteristiche autoctone.
La bolla della new economy ha spazzato via le aziende che avevano
cavalcato l'onda hig tech della fine degli anni '90, ed emuli di Bill
Gates e Larry Page da noi non sono mai attecchiti. I grandi manager
alla Alessandro Profumo e Sergio Marchionne si contano sulle dita di
una mano, e i loro bonus, seppure sostanziosi, non sono paragonabili
a quelli dei colleghi americani e inglesi. Il boom dell'immobiliare
lentamente si sta sgonfiando, e i protagonisti delle pagine
economiche di qualche anno fa, da Stefano Ricucci a Danilo Coppola,
sono passati sulle colonne di cronaca giudiziaria.
Fine modulo
La moda delle piscine in casa non si è fermata, e nella nautica solo le imbarcazioni più piccole non hanno trovato acquirenti: le vendite dei mega-yacht vanno a gonfie vele. Gli ultimi dati sulle immatricolazioni d'auto di gennaio descrivono meglio di un saggio universitario la nuova Italia alla brasiliana, dove la forbice tra i ceti sociali si allarga e le diseguaglianze aumentano: le utilitarie restano in vetrina, mentre le costose Mini e Smart vanno via come il pane. Automobili regalate, in genere, dai mariti delle élite alle moglie o ai rampolli. Fiat, Renault e Hyundai sono in difficoltà, mentre Ferrari, Maserati e Lamborghini mettono a segno performance a doppia cifra.
Secondo
il bollettino Bankitalia pubblicato qualche giorno fa, il
10 per cento delle famiglie detiene quasi la metà della
ricchezza complessiva del Paese
(si tratta di immobili, aziende, azioni e titoli di Stato), un
fenomeno di 'concentrazione' in netta crescita rispetto al dato 2004.
Non solo. L'andamento dei redditi familiari ci mette tra le nazioni
più diseguali d'Europa: disegnandole come un palazzo di dieci
piani, le famiglie dell'attico e del nono piano controllano ormai
oltre il 40 per cento del monte stipendi complessivo, mentre poveri e
classi medio-basse devono accontentarsi del 10 per cento della torta.
I super-ricchi, quelli con un reddito medio di 143 mila euro, sono
pochissimi: solo il 2,2 per cento delle famiglie è iscritta al
club, che ha nettamente aumentato il gap con quelli che vivono ai
pianerottoli più bassi.
Le differenze sono così
marcate che gli esperti più attenti cominciano a raffigurare
la
distribuzione dell'italica ricchezza
non più come una piramide dolcemente degradante, ma come
un calice di vetro:
nel gambo c'è la grande maggioranza della popolazione a
contendersi le briciole, in alto pochi fortunati che sguazzano nello
champagne. "Stiamo assistendo a una delle più grandi
redistribuzioni patrimoniali degli ultimi cinquant'anni", dice
Luigi Campiglio, ordinario di Politica economica alla Cattolica di
Milano. "In termini reali, al netto cioè dell'inflazione,
dal 2000 i dipendenti hanno visto i loro stipendi cristallizzarsi,
mentre gli autonomi hanno accresciuto la capacità di spesa
quasi del 14 per cento. Un incremento probabilmente sottostimato: i
dati di via Nazionale non includono, ovviamente, l'evasione fiscale.
I soldi veri? Li ha fatti chi opera nei settori protetti e meno
esposti alla concorrenza, e chi può aumentarsi il salario da
solo rialzando le tariffe di ciò che vende".
Grossisti
in Ferrari
I
commercianti sono finiti nell'occhio del ciclone già al tempo
del change-over, durante il passaggio dalla lira all'euro. Il
leitmotiv dell'accusa è sempre lo stesso: aver approfittato
della nuova moneta per raddoppiare i prezzi dei prodotti.
Se le critiche a volte sono state eccessive, secondo una tabella
elaborata recentemente dalla stessa Confcommercio e confinata in una
pagina interna dell'ultimo rapporto annuale, la parte di valore
aggiunto dell'intera filiera alimentare finito nelle tasche dei
commercianti è aumentata notevolmente. Passando dal 37 per
cento del 2000 al 43 per cento del 2006. Guadagni
lordi che hanno 'mangiato' il margine di agricoltori e industriali
del settore.
"Bisogna però ricordarsi", ragiona il direttore
dell'ufficio studi Mariano Bella, "che per calcolare quello che
rimane agli esercenti è necessario sottrarre i costi per gli
affitti, per l'energia e il lavoro dipendente. Senza dimenticare che
i gli agricoltori godono di sussidi generosi che noi manco ci
sogniamo". Secondo Campiglio i dettaglianti sono diminuiti in
numero, ma la spirale dei prezzi ha incrementato di certo il loro
conto in banca.
Stessa sorte per quello dei grossisti
di alimentari,
3.500 imprese che controllano un fatturato da 12 miliardi di euro.
Questi ultimi, ben più dei produttori, hanno innovato
radicalmente la loro professione, ormai più simile a quella di
un trader di Borsa che a quella di un mercante. Come un pulcino delle
scuole di calcio sogna di diventare Kakà, il mito di ogni
grossista è Raffaello Orsero, il re delle banane scomparso due
anni fa. Partendo da Albenga, vicino Savona, insieme ai fratelli è
riuscito a trasformare un carretto di frutta in un tesoretto.
Di
certo chi guadagna bene sono fabbri
e idraulici,
che insieme ad altri artigiani sfruttano l'assenza di concorrenza e
di ricambi generazionali.
E vince
chi ha puntato su giochi e scommesse.
In un lustro il giro d'affari è raddoppiato, a conferma della
teoria che lega il boom dell'azzardo alle negative condizioni
economiche di un Paese. Meno
soldi si hanno, più si punta sulla dea fortuna.
Ma gli italiani che si sono arricchiti davvero lavorano soprattutto
nel commercio, in particolare in quello all'ingrosso e nel settore
della grande distribuzione, nel mondo ovattato dei grandi studi
professionali, dove primeggiano avvocati e commercialisti di Milano e
Roma, e nel business inarrestabile della sanità privata.
A
ritmo di samba Anche nella sede di Altagamma, l'associazione delle
imprese italiane che operano nella fascia più opulenta,
guardano i dati dei preconsuntivi stropicciandosi gli occhi. "Non
c'è niente da fare, non c'è crisi che tenga. Il
lusso ha sfondato nel 2007
e ci attendiamo buone performance anche per il 2008", chiosa il
segretario generale Armando Branchini, "l'Italia resta uno dei
mercati migliori al mondo: i nostri clienti hanno portafogli così
gonfi che dell'andamento del Pil se ne fregano. I ricchi sono sempre
più ricchi, i loro conti correnti non subiscono contraccolpi
come quelli dei comuni mortali". Branchini fotografa le
performance di vendita di marche destinate ai benestanti: Bulgari,
Bottega
Veneta,
Artemide,
Zegna,
praticamente quasi tutti i soci hanno
aumentato i profitti.
La gioielleria, orologi compresi, è cresciuta del 10 per
cento, il design e l'arredamento del 12, persino i vini costosi, la
pasta di marca e i cibi da gourmet hanno visto schizzare gli affari
di 15 punti.
L'ortomercato a Milano
I
guadagni migliori sono appannaggio di chi strappa contratti con i big
della grande distribuzione, di chi accorcia la filiera e riduce i
costi. "Ormai siamo noi a dire ai produttori cosa piantare,
bisogna sapere in anticipo che tipo di frutta o di verdura andrà
di moda sui banchi dei mercatini rionali". I
più bravi riescono a guadagnare decine di milioni comprando
all'estero,
investendo sull'informatica, persino modificando la forma di un
vegetale: a Napoli si producevano negli anni '90 peperoni lunghi 40
centimetri, pesanti e difficili da trasportare. Oggi sono più
corti e ben squadrati, in modo da movimentarli a minor prezzo. I
mercati di interesse nazionale sono 150 e controllano il 65-70 per
cento di tutto quello che finisce sulle tavole degli italiani.
Le storie di successo prendono vita nei grandi centri di Torino,
Padova, Verona e Venezia. "Da lì riusciamo ad aggredire
anche i mercati della Russia e dell'Ungheria, inutile negare che ci
sono aziende che hanno ottimi ritorni. Anche se la categoria ha perso
per strada migliaia di colleghi", racconta il presidente di
Fedagro Ottavio Guala. I superstiti, però, se la passano bene,
meglio ancora quelli specializzati in prodotti surgelati: al
supermarket costano molto, ma pare che gli italiani non riescano a
farne a meno.
Avvocati
anticrisi
In
America è diventato un modo di dire. 'The winner-take-all', il
vincitore prende tutto.
"In realtà è il nome di una teoria economica, di
un fenomeno che sta prendendo forma anche in Italia. Per capire dove
finisce il denaro non basta analizzare i settori più
redditizi: in quegli stessi ambiti, dall'industria ai servizi, dal
commercio fino al mondo della finanza, i più forti conquistano
tutto il bottino. Lasciando ai concorrenti poco o nulla":
Campiglio è categorico, e descrive
un sistema dove il guadagno finisce appannaggio di un'élite
ristretta che fa saltare il banco. Un'economia
'delle superstar',
che grazie a un darwinismo sociale spinto porta spesso a un vero e
proprio monopolio della ricchezza. Tra le professioni che sono
riuscite a beneficiare del quadro declinante dell'economia reale un
posto d'onore lo occupano gli avvocati d'affari. In Italia gli yuppie
alla Jerome Kerviel, il trader che ha rubato 5 miliardi alla francese
SocGen, guadagnano poco rispetto ai colleghi della City e di Parigi.
Il 2007 è stato per Piazza Affari un anno negativo, e
la crisi innescata dai mutui subprime ha pesato anche sull'inizio del
2008. Gli
alter ego tricolori dei broker di Wall Street sono invece i giovani
professionisti del legale e del tributario,
che gestendo Opa, fusioni, crisi industriali e quotazioni in Borsa
muovono miliardi e guadagnano milioni. Nel firmamento delle law firm
ci sono gli studi Gianni-Origoni-Grippo, con sedi a Roma, Milano,
Bruxelles, Londra e New York, il rivale Bonelli-Erede-Pappalardo e lo
studio Chiomenti di Michele Carpinelli, professionisti che hanno
tenuto botta all'arrivo dei competitor anglosassoni, Freshfields e
Clifford Chance in testa. Strutture con centinaia di dipendenti, che
fatturano
cifre da capogiro
(nell'ordine di decine di milioni di euro) e che negli anni hanno
schiacciato gli studi più piccoli estromettendoli dalla
partita delle grandi transazioni economiche. All'interno la
gerarchia tra soci e semplici stipendiati è ferrea,
ma chi riesce a portare grossi clienti può scalare la
piramide, partecipare al banchetto di fine anno intascando bonus da
nababbi. Ma anche i giovani dipendenti portano a casa, in media,
stipendi che possono sfiorare i 70-80 mila euro: sono i rampanti che
frequentano Corso Como e sfoggiano vestiti e macchine di marca
davanti al Le Banque, la discoteca più chic di
Milano.
Prenotare i tavolini nel locale, però, non è
appannaggio di tutti. Perché la categoria forense, in
complesso, sta peggiorando il proprio tenore di vita.
Le
prestigiose consulenze sono riservati a pochissimi,
la massa vive di infortunistica e cause civili da dividere con decine
di migliaia di colleghi. Soprattutto nel
Mezzogiorno l'avvocato,
chiosano i ricercatori del Censis in un report di qualche mese fa,
funziona
ancora come ammortizzatore sociale,
"un polmone d'assorbimento di disoccupati". Il reddito
medio era di 46 mila euro nel 2002 - fatturato dichiarato dalla Cassa
di previdenza - e in un lustro è rimasto praticamente
identico. "I salari sembrano un ottovolante, e seguono le curve
dell'età. Le enormi differenze si evidenziano plasticamente
durante la pausa pranzo", dice uno dei più grossi legali
italiani, "i giovani mangiano il panino o vanno in mensa, i
vecchi vanno al sushi bar".
In
ottima salute
Gli altri neo-ricchi che possono fare spallucce davanti alla
crescita zero sono coloro che hanno
fatto fortuna con la sanità privata.
Basta sfogliare i giornali economici: i protagonisti del business
delle cliniche hanno scalzato di fatto i signori (decaduti) del Real
Estate. Giampaolo
Angelucci,
titolare del Gruppo Tosinvest, non sembra però intenzionato a
ballare una sola stagione come Ricucci: insieme ai fratelli controlla
decine di cliniche e ospedali a Roma, in Lombardia e Puglia, e non
disdegna avventure mirate nel campo editoriale e in quello
finanziario. Proprietario di 'Libero' e del 'Riformista', ha da poco
tentato di comprare il pacchetto di maggioranza dell''Unità',
mentre la vendita della quota di Capitalia ha fruttato una
plusvalenza-monstre da 300 milioni di euro.
Altro ras del
settore è Giuseppe
Rotelli,
che in pochi lustri è diventato leader nazionale grazie
all'impero costruito a Milano. Acquistando in blocco le cliniche di
Antonino Ligresti ha sfruttato al meglio la rivoluzione imposta dal
governatore Roberto Formigoni, che nel 1999 ha rotto il monopolio del
pubblico e dato il via all'età dell'oro per gli industriali
della salute: anche a Rotelli piace la carta stampata, e ha una
partecipazione 'potenziale' del 10 per cento dentro Rcs, il gruppo
che controlla il 'Corriere della Sera'.
Ma Angelucci, Rotelli
e Gianfelice Rocca, vicepresidente di Confindustria e presidente di
Humanitas, sono
solo la punta dell'iceberg:
nel 2008 il
giro d'affari totale si avvia a superare gli 8 miliardi di euro,
con un tasso di produttività per occupato che supera - come ha
scritto 'Il Sole 24 Ore' - del 6,4 per cento la media nazionale. "Se
io e lei ci volessimo mettere in società per comprare un
immobile e farci una clinica", dice Giuseppe Scrofina,
presidente di Federsalute, "le assicuro che saremmo in buona
compagnia. Molti hanno fiutato l'affare, c'è la fila".
Per Unioncamere dal 2002 al 2007 sono nate 5.067 nuove imprese
sanitarie, con un aumento del 22 per cento. Sono
cliniche,
ambulatori,
laboratori
di analisi,
centri
per l'assistenza agli anziani,
ma anche società
di ambulanze private
e produttori
di dispositivi medici.
Difficile trovare piccolissimi imprenditori: le strutture e i
macchinari sono costosi, gli investimenti importanti. All'origine del
boom non c'è solo l'espansione nazionale del modello
Formigoni, che ha dirottato sul privato parte importante della spesa
sanitaria pubblica, ma anche fattori
congiunturali refrattari a qualsiasi stagnazione economica:
dall'aspettativa
di vita in aumento,
alla
cultura dilagante del benessere,
alla
fine delle famiglie allargate.
"Gli ospizi sono l'alternativa alla badante", spiega
Scrofina, che mette l'accento anche sulla crisi del servizio
pubblico. Il margine di guadagno è alto anche nelle attività
di riabilitazione e nella lungodegenza, dove il peso del privato
(dati Cergas-Bocconi) è elevatissimo, mentre l'out-of-pocket
ha fatto crescere la spesa pro capite soprattutto in Lombardia,
Veneto, Lazio e Campania. Anche qui i più forti stanno però
cominciando a fare la parte del leone, e le operazioni di
concentrazione rischiano di lasciare il mercato appannaggio di pochi
big player. Che
diventeranno, ovviamente, sempre più ricchi.
(28 febbraio 2008)