NON è facile
percepire quanto sia cambiato il mondo intorno a noi, in poco tempo.
Non il Mondo. Ma il "piccolo" mondo che ci circonda. Il
territorio. Il nostro paese, la nostra città, il nostro
quartiere, le case e le strade vicino a casa nostra. E' avvenuto
tutto in fretta, negli ultimi anni, anzi, negli ultimi decenni. I
nostri occhi si sono abituati a vedere scomparire gli spazi,
l'orizzonte. Si sono abituati a non vedere. Per cui "non"
vediamo più, senza rendercene conto.
D'altronde, la
casa è una vocazione nazionale. L'Italia: Paese di piccoli
paesi, un Paese di compaesani (come lo ha definito, con una formula
felice, il sociologo Paolo Segatti). Ha sempre inseguito il mito
della "casa". Luogo e, al tempo stesso, simbolo di una
società centrata sulla famiglia. Dove le case si trasmettono
per via generazionale, dai genitori ai figli. Una società, per
questo, "stabile", quasi immobile, anzi: immobiliare
(abbiamo detto, in altre occasioni). Per cui la dilatazione edilizia
non ci ha spaventati. Ci è sembrata naturale. Una casa per
ogni famiglia. E per ogni figlio, se possibile. Non ci siamo accorti,
anche per questo, del cambiamento intorno a noi. E, comunque, ci
siamo abituati. L'abbiamo percepito come un costo necessario.
D'altronde, tutto ha un prezzo e non si può pretendere
di conquistare il benessere, se non la ricchezza, senza rinunciare a
qualcosa. Un pezzo di paesaggio, un frammento di ambiente, un metro
di territorio, un po' d'aria, un angolo di orizzonte. E, via via, una
cerchia di relazioni personali e sociali, una scheggia di vita
quotidiana. Fino a ritrovarsi racchiusi in una nicchia, da soli in
mezzo agli altri. Non vorremmo replicare la ballata del ragazzo della
via Gluck. Lamentare che "là dove c'era l'erba ora c'è...
una città". (Anche se la nostalgia è un vizio che
conviene, a volte, coltivare).
Ci interessa,
tuttavia, segnalare che il processo immobiliare, negli ultimi due
decenni e soprattutto negli ultimi anni, ha assunto una velocità
cosmica e un'estensione devastante, quanto gli effetti che ha
prodotto. In Italia più che altrove. Secondo le valutazioni di
Maria Cristina Treu (Presidente del CeDaT - Centro di Documentazione
dell'Architettura e del Territorio del Politecnico di Milano), negli
anni Novanta (dati Eurostat) le costruzioni, in Italia, hanno
sottratto all'agricoltura circa 2.800.000 ettari di suolo. Ogni anno
si consumano 100.000 ettari di campagna (il doppio della superficie
del Parco Nazionale dell'Abruzzo). D'altra parte "l'Italia è
anche il primo paese d'Europa per disponibilità di abitazioni;
ci sono circa 26 milioni di abitazioni (di cui il 20% non occupate),
corrispondenti a un valore medio di 2 vani a persona".
Ragionando sui dati Eurostat di Germania e Francia (come ha
osservato l'economista Giancarlo Corò), emerge che negli anni
Novanta l'Italia ha urbanizzato un'area più che doppia di
suolo rispetto alla Germania (1,2 milioni di ettari) e addirittura 4
volte quello della Francia (0,7 milioni di ettari). I riferimenti
statistici più recenti (Cresme/Saie 2008) sottolineano come
questa tendenza, negli ultimi anni, abbia conosciuto una ulteriore,
violenta accelerazione. Dal 2003 ad oggi, infatti, sono state
costruite circa 1.600.000 abitazioni (oltre il 10% delle quali
abusive). Per contro, è noto che, da vent'anni, la popolazione
in Italia non solo non è cresciuta ma è, al contrario,
calata sensibilmente. E solo negli ultimi anni ha dato segni di
ripresa, grazie al contributo degli immigrati. Il nostro Paese si è,
dunque, urbanizzato in modo ampio, rapido, violento.
Ma per
ragioni che solo in parte - limitata, peraltro - si possono
ricondurre alla "domanda sociale". All'evoluzione
demografica, ai cambiamenti negli stili e nell'organizzazione della
vita delle persone. Semmai è vero il contrario: gli stili e
l'organizzazione della vita delle persone hanno subito mutamenti
significativi e profondi in seguito alla rivoluzione immobiliare del
nostro territorio. Anche se si tende a dimenticarlo, visto che
l'attenzione si è concentrata altrove: sulle conseguenze
economiche e finanziarie del fenomeno a livello globale. Visto che la
casa e l'edilizia, dopo essere state, per anni, il principale motore
della crescita, da qualche tempo si sono trasformate nel principale
motore della crisi. In Italia, peraltro, i comuni hanno finanziato la
loro "autonomia" e fronteggiato il calo dei trasferimenti
dello Stato soprattutto con gli oneri di fabbricazione e la fiscalità
legata alla casa (l'Ici).
Le aree destinate a edilizia
privata, le zone artigianali, commerciali, industriali si sono
moltiplicate. Senza limiti. Senza troppi vincoli. Ci hanno guadagnato
in molti. Immobiliaristi e banche. Gli enti locali. Ma anche molti
privati (impresari, ma anche proprietari di terreni). Così,
abbiamo consumato in fretta il territorio, l'ambiente e, negli ultimi
tempi, lo sviluppo e i risparmi. Ma anche (soprattutto, vorremmo
dire) la società. Che esiste dove, quando e se ci sono
relazioni, associazioni, luoghi e occasioni di incontro. Proprio quel
che si è perduto in questi anni, nelle stesse zone dove
esistevano e resistevano legami di comunità radicati e solidi.
Come nel Centronord e soprattutto nella pedemontana del Nord e nel
Nordest: aree policentriche, disseminate di piccoli paesi. Provate a
girarle facendo attenzione ai cartelli che fiancheggiano le strade.
Molti dei quali annunciano che lì vicino sta sorgendo, oppure
è sorto, un "villaggio Margherita" oppure
Quadrifoglio, un "quartiere Europa" o Miramonti.
Tanti
insediamenti grandi o piccoli, disseminati di palazzi, villette a
schiera, appartamenti di varia metratura, garage interrati. Intorno:
prati un po' esangui, strade e rotonde. Rotonde, rotonde e ancora
rotonde. Magari una pista ciclabile. Al centro una piazza - veramente
finta - attrezzata con panchine e magari un prato. Perlopiù
ridotta a parcheggio, dove i bambini non giocano e gli adulti non si
fermano a parlare. Accanto: altri quartieri e altri villaggi nuovi.
Sorgono senza seri progetti di integrazione, socializzazione. Senza
politiche finalizzate a costruire relazioni sociali, oltre agli
immobili. Né ad alimentare la vita pubblica, oltre alla
rendita privata. Località artificiali, dove confluiscono
migliaia e migliaia di persone. Migliaia e migliaia di estranei. Di
stranieri, immigrati: anche se sono veneti, lombardi, marchigiani.
"Italiani veri": da generazioni e generazioni. Ma in
realtà: apolidi. Abitanti del "villaggio Margherita"
e del "condominio Europa".
È così che
siamo diventati un paese di stranieri. Individui poveri di relazioni,
sempre più soli e impauriti. Che passano la gran parte del
loro tempo in casa. Con scarsi ed episodici contatti con il mondo
circostante.
Principale fonte di conoscenza del mondo: la
televisione. Comunicano con gli altri attraverso i cellulari e - i
più competenti - le e-mail. Abituati a relazioni senza
empatia, frequentano i centri commerciali, non solo per "consumare"
ma per uscire di casa, per incontrare gente. Si tuffano nelle notti
bianche, negli eventi di massa. Dove gli altri sono "folla"
e restano "altri". Estranei. Questo ci pare il problema
principale, oggi. La scomparsa della società, sostituita da
un'opinione pubblica pallida. Artificiale. Atomizzata. Non
"Opinione", ma "opinioni", raccolte dai sondaggi,
rappresentate "dai" e "sui" media. Più che
"opinione pubblica": pubblico. Spettatori. Persone senza
città. Non-cittadini.
Da La Repubblica (24
agosto 2008)