Gli zingari non sono 'molti, moltissimi', non dilagano, non ci
invadono.
Sono, in un Paese di circa 56 milioni di abitanti, 100/110.000 (circa il due
per mille della popolazione italiana...) di cui 70/80.000 cittadini italiani
e 20/30.000 cittadini stranieri provenienti, per l'essenziale, da varie
parti dell'ex Jugoslavia.

Sono pochi, pochissimi quindi e non tendono a
concentrarsi in specifiche parti del territorio. Le loro scelte insediative
si basano piuttosto su strategie di dispersione territoriale.


Quasi metà di questo piccolo popolo ha meno di 15 anni, meno del 3% supera i 60 anni.
Isolati nelle nostre periferie più degradate, gli zingari muoiono giovani.

I tassi di morbilità e di mortalità sono alti fra gli adulti, altissimi fra i
bambini.

La scolarizzazione è bassa e irregolare, l'analfabetismo diretto o
di ritorno diffusissimo; la disoccupazione, generalizzata.


Nessun paragone è possibile con la struttura demografica, le condizioni di salute, la
scolarizzazione, l'inserimento al lavoro del resto della popolazione.


Sono arrivati nel nostro Paese in momenti diversi:

i sinti dal Nord, via terra, nei primi anni del Quattrocento;

i rom nell'Italia meridionale, via mare, provenienti dalle zone grecofone del morente Impero bizantino, nella
seconda metà del Quattrocento;

gli harvati, dall'est, con le modifiche territoriali della prima guerra mondiale e (già allora!) con le tragedie che
la seconda guerra mondiale aveva creato in Slovenia, Croazia, Istria, Dalmazia.


Più recentemente, a partire dagli anni '60, la crisi economica
jugoslava ha prodotto una ripresa di movimenti dall'est verso l'Italia e,
infine, il precipitare della guerra, delle pulizie etniche e dei massacri un
arrivo massiccio a partire dal 1991.


Definirli 'nomadi' è sbagliato e fuorviante. Il nomadismo, con certe forme e
certe sue regole, è uno dei modi di essere delle comunità zingare.


Sono numerosissimi invece - nel tempo storico e nello spazio geografico - i
gruppi semi sedentari o compiutamente sedentarizzati, per esempio
nell'Italia centrale e meridionale, in Spagna, in Ungheria, in molte parti
dell'ex Jugoslavia, nell'impero bizantino e in quello ottomano, a Bassora (Sud Iraq)
sin dal VII secolo.

Meglio definirli ('nominarli', come dicevamo sopra)
zingari, come vuole una tradizione 'gagé' consolidata, o, meglio, con i
sostantivi Rom e Sinti, come si autodefiniscono, seguiti, volta per volta,
da un aggettivo specificativo (harvati, kalderas, xoraxané, abruzzesi,
eccetera).

Sono - in Italia come nel resto del mondo - un popolo, composto
di tante comunità distinte. Ed è come tali che vanno riconosciuti, nominati,
individuandone le diversità specifiche, comunità per comunità, e i tratti
comuni.


Parlando di zingari, occorre tenere distinti gli aspetti giuridici da quelli
antropologici.

Giuridicamente, con tutte le conseguenze pratiche che ciò
comporta sul piano dei diritti formali, si possono distinguere gli zingari
presenti in Italia sulla base della cittadinanza: cittadini italiani (la
maggioranza), cittadini della Comunità europea (francesi, spagnoli, ecc.),
cittadini extracomunitari (soprattutto ex jugoslavi).


Antropologicamente, però, è molto più significativo sul piano scientifico e più rispettoso
della soggettività delle comunità zingare distinguere per aggregazioni e comunità
etnico-linguistiche:

vedi la tradizionale distinzione rom/sinti, indipendente dalla cittadinanza;
i lovara, di origine ungherese-rumena ma
spesso, nelle stesse comunità presenti in Italia, con cittadinanza o
italiana o francese o spagnola;

l'intensità di rapporti tra rom harvati,
cittadini italiani, e rom sloveni, croati, istriani, dalmati, cittadini ex
jugoslavi, confrontata con la freddezza di rapporti tra rom harvati e rom
abruzzesi, cittadini italiani gli uni e gli altri.


Gli zingari sono quindi un popolo articolato in comunità, plasmato dalla sua
storia - storia della difesa orgogliosa della propria identità e storia
delle proprie strategie di adattamento al mutare delle situazioni,
interagendo con le culture ospiti - e dalla nostra secolare ostilità, dal
suo modo di rispondere, per secoli, alla storia delle nostre persecuzioni.


Un popolo portatore di tradizioni e di culture: modi specifici di
rapportarsi al cibo, al sesso, agli anziani e ai bambini, di definire e
vivere le regole della comunità.

Un popolo che parla una lingua neo-indiana,
divisa in dialetti frutto dei modi diversi in cui questa lingua ha
interagito, nel tempo storico e nello spazio geografico, con le parlate dei
popoli incontrati e dei paesi attraversati - ma con un robusto fondo comune
lessicale, morfologico, sintattico.

Sono - qui e oggi - un certo modo,
contraddittorio e lacerante, di tenere insieme, in un equilibrio instabile,
valori e modelli di vita tradizionali con i valori e modelli che la TV, in
ogni sgangherata roulotte, propone loro quotidianamente.


Sono il prodotto del nostro disprezzo di oggi, che li accompagna dalla culla alla tomba;
della segregazione nei nostri meschini e mediocri campi comunali; dei
brutali e continui sgomberi notturni che sbattono gli 'abusivi' da una
discarica all'altra. E della loro resistenza-adattamento a tutto questo.


Carlo Cuomo - tratto da 'Il calendario del Popolo'