Regime o
non-regime? Un confronto su questo dilemma, pur così tanto
determinante rispetto al dovere morale che tutti riguarda, ora
come sempre, qui come ovunque, di prendere posizione circa la
conduzione politica del paese di cui si è cittadini, non è
neppure incominciato. La ragione sta, probabilmente, in
un’associazione di idee. Se il "regime",
inevitabilmente, è quello del ventennio fascista, allora la
domanda se in Italia c’è un regime significa se c’è
"il" o "un" fascismo; oppure, più in
generale, se c’è qualcosa che gli assomigli in
autoritarismo, arbitrio, provincialismo, demagogia, manipolazione
del consenso, intolleranza, violenza, ecc. Così, una
questione seria, anzi cruciale, viene attratta sul terreno, che
non si presta all’analisi, della demonizzazione politica,
funzionale all’isteria e allo scontro.
Ma "regime"
è un termine totalmente neutro, che significa semplicemente
modo di reggere le società umane. Parliamo di "Ancien
Régime", di regimi repubblicani e democratici,
monarchici, parlamentari, presidenziali, liberali, totalitari e,
tra gli altri, per l’appunto, di regime fascista. Senza
qualificazione, regime non ci dice nulla su cui ci sia da prendere
posizione, perché l’essenziale sta nell’aggettivo.
Così, assumendo la parola nel suo significato
proprio, isolato dalle reminiscenze, la domanda iniziale cambia di
senso: da "esiste attualmente un regime" in "il
regime attuale è qualcosa di nuovo, rispetto al
precedente"? Che l’Italia viva un’esperienza
costituzionale, forse ancora in divenire e dall’esito non
scontato, che mira a non lasciarsi confondere con quella che l’ha
preceduta: almeno di questo non c’è da dubitare. Lo
pensano, e talora lo dicono, tanto i favorevoli, quanto i
contrari, cioè lo pensiamo e lo diciamo tutti, con
definizioni ora passatiste ora futuriste.
Non lo si dice
ufficialmente e a cifra tonda, perché il momento è,
o sembra, ancora quello dell’incubazione. La covata è
a mezzo. L’esito non è scritto. La Costituzione del
‘48 non è abolita e, perciò, accredita
l’impressione di una certa continuità. Ma è
sottoposta a erosioni e svuotamenti di cui nessuno, per ora, può
conoscere l’esito. Forze potenti sono all’opera per il
suo superamento, ma altre forze possono mobilitarsi per la sua
difesa. La Costituzione è in bilico.
Che cosa
significa "costituzione in bilico"? Innanzitutto, che
non si vive in una legittimità costituzionale generalmente
accettata, cioè in una sola concezione della giusta
costituzione, ma in (almeno) due che si confrontano. Ogni forma di
reggimento politico si basa su un principio essenziale, una molla
etica, il ressort
di cui parla Montesquieu, trattando delle forme di governo
nell’Esprit des lois.
Quando questo principio essenziale è in consonanza con
l’esprit général
di un popolo, allora possiamo dire che la costituzione è
legittima e, perciò, solida e accettata. Quando è
dissonante, la costituzione è destinata crollare, a essere
detronizzata. Se invece lo spirito pubblico è diviso, e
dunque non esiste un esprit
che possa dirsi général,
questo è il momento dell’incertezza costituzionale,
il momento della costituzione in bilico e della bilancia che prima
o poi dovrà pendere da una parte. È il momento del
conflitto latente, che non viene dichiarato perché i
fautori della rottura costituzionale come quelli della continuità
non si sentono abbastanza sicuri di sé e preferiscono
allontanare il chiarimento. I primi aspettano il tempo più
favorevole; i secondi attendono che passi sempre ancora un giorno
di più, ingannando se stessi, non volendo vedere ciò
che temono. Tutti attendono, ma i primi per prudenza, i secondi
per ignavia.
Non voler vedere, significa scambiare per
accidentali deviazioni quelli che sono segni di un mutamento di
rotta; significa sbagliare, prendendo per lucciole, cioè
per piccole alterazioni che saranno presto dimenticate come
momentanee illegalità, quelle che sono invece lanterne,
cioè segni premonitori e preparazioni di una diversa
legittimità. Così, si resta inerti. L’accumulo
progressivo di materiali di costruzione del nuovo regime procede
senza ostacoli e, prima o poi, farà massa. Allora, non sarà
più possibile non voler vedere, ma sarà troppo
tardi.
* * *
Ciò che davvero qualifica e
distingue i regimi politici nella loro natura più profonda
e che segna il passaggio dall’uno all’altro, è
l’atteggiamento di fronte all’uguaglianza, il valore
politico, tra tutti, il più importante e, tra tutti però,
oggi il più negletto, perfino talora deriso, a destra e a
sinistra. Perché il più importante? Perché
dall’uguaglianza dipendono tutti gli altri. Anzi, dipende il
rovesciamento nel loro contrario. Senza uguaglianza, la libertà
vale come garanzia di prepotenza dei forti, cioè come
oppressione dei deboli. Senza uguaglianza, la società,
dividendosi in strati, diventa gerarchia. Senza uguaglianza, i
diritti cambiano natura: per coloro che stanno in alto, diventano
privilegi e, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità.
Senza uguaglianza, ciò che è giustizia per i primi è
ingiustizia per i secondi. Senza uguaglianza, la solidarietà
si trasforma in invidia sociale. Senza uguaglianza, le
istituzioni, da luoghi di protezione e integrazione, diventano
strumenti di oppressione e divisione. Senza uguaglianza, il merito
viene sostituito dal patronaggio; le capacità dal
conformismo e dalla sottomissione; la dignità dalla
prostituzione. Nell’essenziale: senza uguaglianza, la
democrazia è oligarchia, un regime castale. Quando le
oligarchie soppiantano la democrazia, le forme di quest’ultima
(il voto, i partiti, l’informazione, la discussione, ecc.)
possono anche non scomparire, ma si trasformano, anzi si
rovesciano: i diritti di partecipazione politica diventano armi
nelle mani di gruppi potere, per regolare conti della cui natura,
da fuori, nemmeno si è consapevoli.
Questi
rovesciamenti avvengono spesso sotto la copertura di parole
invariate (libertà, società, diritti, ecc.).
Possiamo constatare allora la verità di questa legge
generale: nel mondo della politica, le parole sono esposte a
rovesciamenti di significato a seconda che siano pronunciate da
sopra o da sotto della scala sociale. Ciò vale a iniziare
dalla parola "politica": forza sopraffattrice dal punto
di vista dei forti, come nel binomio amico-nemico; oppure, dal
punto di vista dei deboli, esperienza di convivenza, come
suggerisce l’etimo di politéia.
Un uso ambiguo, dunque, che giustifica la domanda a chi parla di
politica: da che parte stai, degli inermi o dei potenti? La
ricomposizione dei significati e quindi l’integrità
della comunicazione politica sono possibili solo nella comune
tensione all’uguaglianza.
* * *
Ritorniamo alla questione iniziale, se sia in corso, o se si sia già
realizzato, un cambiamento di regime, dal punto di vista decisivo
dell’uguaglianza.
In ogni organizzazione di grandi
numeri si insinua un potere oligarchico, cioè il contrario
dell’uguaglianza. Anzi, più i numeri sono grandi, più
questa è una legge "ferrea". E’ la
constatazione di un paradosso, o di una contraddizione della
democrazia. Ma è molto diverso se l’uguaglianza è
accantonata, tra i ferri vecchi della politica o le pie illusioni,
oppure se è (ancora) valore dell’azione politica. La
costituzione - questa costituzione che assume l’uguaglianza
come suo principio essenziale - è in bilico proprio su
questo punto.
Noi non possiamo non vedere che la società
è ormai divisa in strati e che questi strati non sono
comunicanti. Più in basso di tutti stanno gli invisibili, i
senza diritti che noi, con la nostra legge, definiamo
"clandestini", quelli per i quali, obbligati a tutto
subire, non c’è legge; al vertice, i privilegiati,
uniti in famiglie di sangue e d’interesse, per i quali,
anche, non c’è legge, ma nel senso opposto, perché
è tutto permesso e, se la legge è d’ostacolo,
la si cambia, la si piega o non la si applica affatto. In mezzo,
una società stratificata e sclerotizzata, tipo Ancien
Régime, dove la mobilità è sempre più
scarsa e la condizione sociale di nascita sempre più
determina il destino. Se si accetta tutto ciò, il resto
viene per conseguenza. Viene per conseguenza che la coercizione
dello Stato sia inegualmente distribuita: maggiore quanto più
si scende nella scala sociale, minore quanto più si sale;
che il diritto penale, di fatto, sia un diritto classista e che,
per i potenti, il processo penale non esista più; che nel
campo dei diritti sociali la garanzia pubblica sia
progressivamente sostituita dall’intervento privato, dove
chi più ha, più può. Né sorprende che
quello che la costituzione considera il primo diritto di
cittadinanza, il lavoro, si riduca a una merce di cui fare
mercato.
Analogamente, anche l’organizzazione del
potere si sposta e si chiude in alto. L’oligarchia partitica
non è che un riflesso della struttura sociale. La vigente
legge elettorale, che attribuisce interamente ai loro organi
dirigenti la scelta dei rappresentanti, escluso il voto di
preferenza, non è che una conseguenza. Così come è
una conseguenza l’allergia nei confronti dei pesi e
contrappesi costituzionali e della separazione dei poteri, e nei
confronti della complessità e della lunghezza delle
procedure democratiche, parlamentari. Decidere bisogna, e
dall’alto; il consenso, semmai, salirà poi dal basso.
E’ una conseguenza, infine, non la causa, la
concentrazione di potere non solo politico ma anche
economico-finanziario e cultural-mediatico. L’indipendenza
relativa delle cosiddette tre funzioni sociali, da millenni
considerata garanzia di equilibrio, buon governo delle società,
è minacciata. Ma il tema delle incompatibilità, cioè
del conflitto di interessi, a destra come a sinistra, è
stato accantonato.
La causa è sempre e solo una:
l’appannamento, per non dire di più, dell’uguaglianza
e la rete di gerarchie che ne deriva. Qui si gioca la partita
decisiva del "regime". Tutto il resto è
conseguenza e pensare di rimettere le cose a posto, nelle tante
ingiustizie e nelle tante forzature istituzionali senza affrontare
la causa, significa girare a vuoto, anzi farsene complici.
Nessun regime politico si riduce a un uomo solo, nemmeno i
"dispotismi asiatici", dove tutto sembrava dipendere
dall’arbitrio di uno solo, kahn, califfo, satrapo, sultano,
o imperatore cinese. Sempre si tratta di potere organizzato in
sistemi di relazioni. Alessandro Magno, il più "orientale"
dei signori dell’Occidente, perse il suo impero perché
(dice Plutarco), mentre trattava i Greci come un capo, cioè
come fossero parenti e amici, «si comportava con i barbari
come con animali o piante», cioè meri oggetti di
dominio, «così riempiendo il suo regno di esìli,
destinati a produrre guerre e sedizioni». Sarà pur
vero che comportamenti di quest’ultimo genere non mancano,
ma non vedere il sistema su cui si innestano e li producono
significa trascurarne le cause per restare alla superficie, spesso
solo al folklore.
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