Il
problema della classe dirigente
Colloquio con
Giuseppe De Rita
13/11/08
Gerontocrazia,
partitocrazia, parentocrazia, clientocrazia, persino - new entry
lessicale - mignottocrazia. Tutto ciò che finisce in "zia"
si declina in Italia molto più di meritocrazia, ciò che
tutti dicono di desiderare. Perché? E come uscirne? Come
stappare un sistema leaderistico che, perso nella sua arretratezza
culturale, assiste allibito a un nero nato nel 1961 che viene eletto
presidente della più grande democrazia del mondo? Giuseppe De
Rita, animatore del Censis, sguardo cattolico disinibito e maestro
delle analisi icastiche, attribuisce il nostro deficit nientemeno che
a Menenio Agrippa: "Ricorda la vecchia metafora di Menenio
Agrippa? Diceva che tutto il corpo fa riferimento al cervello, le
mani, i piedi, lo stomaco sono sensori stupidi. Se uno si scotta un
dito è perché il senso del dolore arriva al cervello,
tutti gli impulsi confluiscono nella testa".
Abbia
pazienza, professor De Rita, ma che c'entra con la vecchiezza delle
classi dirigenti, la persistenza di élites modeste, che anzi
via via sembrano peggiorare? Che c'entra con il mancato ricambio, i
giovani imbottigliati in un destino di minorità, magari geni
della ricerca a 1000 euro al mese, che vedono nominare ministri della
Repubblica calendariste e portaborse, diventare ricche (o potenti)
ragazzotte che fanno le veline?
"C'entra eccome. Il
problema che stiamo affrontando è quello di una logica
gerarchico-piramidale, di un sistema antico controllato da una classe
dirigente che si annida nella vetta della piramide e manda tutto il
resto all'inferno. E' l'effetto di uno Stato accentrato fin dal
Risorgimento, che ha prodotto una stratificazione sociale e di potere
granitica che non si intacca se non si riesce a cambiare la
governance del paese".
Col Risorgimento la
prendiamo un po' da lontano in un paese che si dice tutto proteso
alle liberalizzazioni.
"Ma è quello che ci ha
portato questa eredità, rispetto ad altri paesi che hanno
saputo entrare nella logica cibernetica".
Cibernetica?
"Sì. Oggi i vari terminali dei computer dialogano
tra loro producendo quel policentrismo liberatorio che l'Italia non
riesce ad avere nell'arroccamento in vetta alla piramide che rovina
il paese. Il dialogo diretto, non mediato dal centro, questo è
la cibernetica rispetto a un sistema organicistico".
Vuol
dire che la piramide è così forte da produrre
gerontocrazia, clientela, parentela e immobilità?
"Mancando l'articolazione delle responsabilità nella
primazia totale dello Stato, le classi dirigenti sono quelle che
conquistano la puntina della piramide in mille modi: con i soldi, i
media, la corruzione, la parentela, magari il sesso. Mentre le vere
classi dirigenti si fanno in periferia con il policentrismo. Il
presidente degli Stati Uniti è il frutto del policentrismo
degli sceriffi, dei sindaci, dei senatori, dei governatori. In
America crescono, arrivano, li vediamo per otto anni poi scompaiono
tutti, presidenti, segretari di Stato, tranne naturalmente Henry
Kissinger. Noi non ne usciamo se non cambiamo l'architettura del
potere, che invece di autentiche classi dirigenti ci regala classi
monarchiche, classi di Corte".
Cortigiani? Lei pensa
soprattutto alla politica, ma anche nelle aziende c'è una
sorta di perpetuazione di potere, spesso affidato a yesmen inadeguati
da una pseudo-borghesia capitalistica che non ha dato grandi prove.
"Credo invece che, alla fine, nelle aziende, come nel
sindacato e nelle regioni un po' di classe dirigente si formi,
nonostante tutto. Beneduce quando creò l'Iri durante il
fascismo, si fece una sua classe dirigente di qualità, ma
credo sia un fatto irripetibile. Però negli ultimi anni ho
visto crescere fior di manager. Che ne so? Penso alla Merloni, a
Caio, a Guerra, a Milani. E a molti altri. Per cui attenti a dire che
le classi dirigenti sono tutte vecchie, inefficienti o mignottizzate.
Il circuito però è stretto, è vero. Per stappare
la bottiglia bisogna allargarlo di molto quel circuito".
Come
allargare il sentiero se il modello resta quello della politica di
relazione e del capitalismo di relazione, a dispetto di ogni
invocazione a una società più aperta?
"C'è
una questione di struttura di governance. Da quella organicistica di
Menenio Agrippa, che produce classe di Corte, militare o mantenuta,
bisogna passare a una governance cibernetica, prendendo coscienza del
fatto che, come mi ha appena detto Paolo Prodi con immagine felice, è
finito lo Stato sovrano, incede ormai lo Stato-sistema, che deve
mettere toppe di qua e di là abbandonando la logica
monarchico-piramidale".
Torniamo sempre allo Stato,
professor De Rita. Ma qui parliamo dell'intera società
imprigionata in un collo di bottiglia.
"Certo che
torniamo allo Stato. Lei lo vede che i ministeri sono svuotati?
Brunetta dice che sono pieni di fannulloni. Ma il problema non è
che ci sono i fannulloni, è invece che il vertice della
piramide è lì chiuso nella sua punta e a quelli non gli
fa fare niente. Se ne esce soltanto passando dalla monarchia
piramidale alla poliarchia. Le moderne élite si formano nel
policentrismo. O non si formano affatto".
Lei sta
dicendo che si perpetua la logica del cervellone elettronico di tanti
anni fa, immenso nel sotterraneo, e non quella dei moderni terminali
che dialogano tra loro in periferia?
"Nel mio annoso
mestiere, quando lavoravamo con Pasquale Saraceno al piano Vanoni
c'era l'idea del consigliere del principe. Ma sono passati i tempi
del principe. Il principe non c'è più. I politici più
avveduti devono evitare di fare i capi-macchina, la logica
dell'accentramento monarchico non funziona più. Berlusconi e
Veltroni? Icone, sono icone".
Scusi De Rita, lei dice
che occorre una rivoluzione culturale nella governance, come oggi si
dice, di questo paese. Le sembra che qualcuno ne abbia veramente
coscienza e soprattutto voglia?
"Qualcuno dovrà
pur accorgersi prima o poi che nella formazione delle classi
dirigenti siamo più arretrati di tutti gli altri, forse
persino dei francesi, che sono ancora napoleonici. Lei dirà
che la Cina è più accentrata di noi. Ma lì sono
un miliardo e 200 mila, per cui il policentrismo antimonarchico è
fatale. In India, dove c'è una cultura alta invidiabile, la
società è molto più articolata che da noi".
Allora siamo vittime di una maledizione antropologica?
"Beh, è vero che siamo un paese antropologico,
fatto di familismo, furbizia e quant'altro, ma non credo sia questo
che produce il collo di bottiglia, che blocca il ricambio delle
classi dirigenti. Riflettiamo piuttosto sulla cibernetica e Menenio
Agrippa".
Da Repubblica - 13 novembre 2008