L'AMBIENTALISTA
VANDANA SHIVA ESPONE LE SUE TESI
DALLA
PARTE degli ultimi
Dalla
connessione tra sostenibilità ecologica e giustizia sociale,
al nesso tra riduzionismo scientifico e rimozione di tutti i limiti
etici allo sfruttamento della natura, fino al concetto di
«malsviluppo»
I
«poveri» sostiene Vandana Shiva, non sono coloro che sono
«rimasti indietro» perché incapaci di giocare le
regole del capitalismo, ma quelli che sono stati esclusi da ogni
gioco e a cui è stato impedito l'accesso alle proprie risorse
da un sistema economico che erode il controllo pubblico sul
patrimonio biologico e culturale. Stare «dalla parte degli
ultimi» (come recita il titolo di un suo recente libro
pubblicato dalle Edizioni Slow Food) non significa dunque dare di più
a chi ha meno, ma restituire ciò che è stato sottratto
con la forza di leggi ingiuste, difendere i beni comuni dall'assalto
avanzato dalla globalizzazione neo-liberista, impedire la
brevettabilità delle forme di vita e di conoscenza e costruire
una nuova democrazia ecologica. Una democrazia che difenda la
biodiversità e riconosca il reciproco condizionamento tra
sostenibilità ecologica e giustizia sociale.
Abbiamo
chiesto a Vandana Shiva, che da decenni continua a rivendicare il
diritto di ogni essere umano a opporsi e resistere - in senso
gandhiano - alle leggi che lo esautorano dei suoi diritti, di
rispondere ad alcune domande sulla sua pratica di scienziata e
attivista.
Una
delle questioni che lei tende a sottolineare con più
insistenza è l'intima connessione tra sostenibilità
ecologica e giustizia sociale. Come spiegherebbe questa connessione a
quanti continuano a ritenere che si tratta di ambiti del tutto
separati e tra loro impermeabili?
Per
la maggior parte dei poveri la connessione è evidente, perché
le risorse naturali ed ecologiche costituiscono la fonte principale
del loro sostentamento, e quando qualcuno se ne appropria
indebitamente questo porta da un lato all'insostenibilità
ecologica e dall'altro all'ingiustizia sociale ed economica. Mi lasci
fare due esempi: se la Coca Cola estrae giornalmente con i suoi
impianti milioni di litri d'acqua di cui beneficia di solito una
certa comunità, così facendo distrugge il sistema
idrico di quella comunità e allo stesso tempo causa una nuova
forma di ingiustizia sociale ed economica. Oppure prendiamo la
questione della terra: in Bengala, di recente il gruppo Tata ha
cercato di appropriarsi della terra dei contadini, ma la
sottomissione agli obiettivi dell'industria automobilistica di una
terra che offre sostentamento a migliaia di persone non solo toglie
fertilità a quella terra e crea una produttività
insostenibile dal punto di vista ecologico, ma determina anche una
grave ingiustizia sociale. Ed è proprio contro questa
ingiustizia che hanno combattuto, organizzandosi, i contadini del
Bengala, impedendo alla Tata di costruire sulle loro terre. Sono
soltanto due tra i numerosi esempi che dimostrano, tra l'altro, come
sostenibilità ecologica e giustizia sociale siano connesse
alla pace, perché è proprio dall'ingiustizia sociale e
dalla crescita della disuguaglianza che trae origine il
fondamentalismo.
Secondo
l'analisi che svolge nel «Bene comune della terra», «la
globalizzazione economica si configura come una nuova forma di
"enclosure of the commons", la recinzione delle terre
comuni britanniche», ed è volta a privatizzare ogni
aspetto della nostra vita, dall'acqua che beviamo alla biodiversità,
dal sistema educativo al patrimonio culturale. Ci può spiegare
in che modo la globalizzazione è legata alla recinzione dei
beni comuni dell'Inghilterra del XVI secolo e quali sono le sue
attuali manifestazioni?
In
Inghilterra, con le recinzioni dei beni comuni ci si è
appropriati delle terre dei contadini trasformandole in terreni per
la produzione di materie prime destinate all'arricchimento della
borghesia emergente e al funzionamento dell'industria tessile. Negli
ultimi decenni, attraverso le leggi sulla proprietà
intellettuale promosse dal Wto e grazie alle condizioni finanziarie
imposte dalla Banca Mondiale con i piani di aggiustamento strutturale
e i processi di privatizzazione sono stati inclusi nelle recinzioni
proprietarie dei beni di nuovo tipo. Quelli ai quali ho rivolto in
particolare la mia attenzione sono le risorse viventi: i sistemi
viventi grazie ai quali il pianeta si mantiene vivo e che sono
indispensabili per soddisfare i nostri bisogni fondamentali sono
stati dichiarati proprietà intellettuale, come fossero una
creazione delle corporation: oggi è la vita stessa come bene a
venire privatizzata; inoltre, dal momento che i sistemi viventi si
accompagnano a particolari tipi di sapere e conoscenza, e che dunque
specifici sistemi di conoscenza sono associati a specifiche forme di
vita, si cominciano a recintare anche il sapere e i beni
intellettuali. È ormai evidente che siamo di fronte a un
assalto sferrato verso l'atmosfera così come verso l'aria che
respiriamo: le grandi industrie prima recintano l'aria inquinandola e
trattandola come un oggetto già morto e di loro proprietà,
e poi, una volta che l'inquinamento raggiunge un livello da caos
climatico, pensano di farne materia di scambio commerciale. La
possibilità di comprare e vendere quote di emissioni
inquinanti dimostra che tutti gli attori coinvolti nelle discussioni
relative ai protocolli sui cambiamenti climatici credono davvero che
sull'atmosfera si possano esercitare diritti di proprietà.
Quella compiuta da un manipolo di industrie inquinanti è solo
l'ultima, clamorosa forma di recinzione dei beni comuni.
Lei
è sempre stata molto critica nei confronti del riduzionismo
della scienza meccanicistica figlia della rivoluzione scientifica. Ci
spiega perché ritiene che il riduzionismo non sia
«semplicemente un incidente epistemologico, ma la risposta ai
bisogni di uno specifico tipo di organizzazione economica e
politica», e perché crede che la scienza moderna
costituisca «una giustificazione etica e gnoseologica allo
sfruttamento delle risorse» comuni?
Sono
molti i modi attraverso i quali l'emergere della scienza
meccanicistica - e della filosofia riduzionista che ne è alla
base - finisce per integrarsi alla crescita dell'organizzazione
economica che definiamo capitalismo, promuovendone le regole di
funzionamento e favorendone gli interessi. Innanzitutto,
l'orientamento riduzionista consente che vengano rimossi tutti i
limiti etici allo sfruttamento della natura. Nel periodo in cui
questa ideologia andava formandosi, gli scienziati sostenevano che le
culture fondate su una visione olistica della natura e del rapporto
tra la natura e l'uomo ne ostacolavano lo sfruttamento; per questo è
stato necessario un assalto all'idea degli esseri umani come parte
della natura e a quella della natura come organismo vivente: la
natura è stata uccisa e la terra mater convertita in terra
nullius, una terra vuota, priva di capacità produttiva e
creativa, un mero amalgama di materie prime. Inoltre, il riduzionismo
e la filosofia meccanicistica permettono di esternalizzare i danni
dello sfruttamento: il riduzionismo prima fa in modo che la vita
possa essere sfruttata e distrutta, e poi, tagliando e sezionando la
realtà, fa sì che si possano chiudere gli occhi sulle
conseguenze delle nostre azioni. Questo meccanismo viene adottato
anche in altri campi: i sistemi viventi sono sistemi complessi,
altamente differenziati, che si auto-organizzano, ma l'ingegneria
genetica considera le piante come un mero insieme di atomi chiamati
geni, che possono essere sezionati, tagliati e spostati, come pezzi
di un «Lego», senza conseguenze. Ora, se i contadini
indiani muoiono a causa dei prodotti dell'ingegneria genetica, il
riduzionismo permetterà di negare che le cause siano da
attribuirsi alla tecnologia in sé, attribuendole ad altri
fattori. Il riduzionismo, poi, opera come una vera e propria
ideologia perché si presenta come l'unica scienza degna di
questo nome, assoggettando a sé tutti gli altri sistemi di
conoscenza (che sono altrettanto, se non più complessi),
oppure negando che si tratti di vera scienza.
La
degradazione della natura, il passaggio forzato da terra mater a
terra nullius è stato condotto anche attraverso quel processo
che in «Sopravvivere allo sviluppo» lei ha illustrato
introducendo il termine di «malsviluppo», con il quale
indica «un modo di conoscenza mascolino», «un
modello di sviluppo patriarcale». Ci spiega in che modo «il
"malsviluppo" confina le donne alla passività»?
Ho
adottato il termine «malsviluppo» per indicare uno
sviluppo deforme, un malfunzionamento del sistema, e per tracciarne
il legame con un approccio patriarcale, che combina la dominazione
sulle donne a quella del capitale sulla natura e sugli individui. Il
«malsviluppo» confina le donne nella passività
innanzitutto trattando la loro conoscenza come se non esistesse.
Negli ultimi trentacinque anni ho lavorato con tantissime donne e mi
sono sempre più convinta che siano loro i «veri
esperti», le uniche in grado di conoscere il funzionamento di
un sistema e i modi per proteggerlo, e che il mondo sia in gran parte
«prodotto» dalle donne. Ciò nonostante, il sistema
di pensiero riduzionista e l'organizzazione economica capitalista
hanno escluso o sottostimato i contributi delle donne inducendoci a
credere che il lavoro, fondamentale, di «mantenere la vita»
non sia un vero e proprio lavoro, perché non produttivo.
Secondo quel sistema di pensiero infatti una donna che mantiene la
propria famiglia non produce nulla, e una comunità che
soddisfa tutti i propri bisogni alimentari ma non vende o compra
alimenti non produce cibo e non contribuisce alla «crescita»
e allo «sviluppo». L'adozione di questo criterio di
misura ha portato al «malsviluppo» e con esso alla
distruzione della natura, allo sfruttamento del «capitale
naturale», e, insieme alla negazione dei bisogni fondamentali,
la crescita della povertà.
Secondo
la sua analisi, dovremmo abbandonare l'attuale economia suicida e
promuovere un atteggiamento culturale che esprima «un
radicamento profondo alla terra e alle specificità del luogo
in cui si origina, ma anche un sentimento di solidarietà per
tutto il genere umano, una coscienza universale». Qualcuno
potrebbe osservare che, nella pratica, si tratta di obiettivi
opposti, perché l'ancoraggio alla specificità
contraddice il richiamo alla solidarietà universale. Come
risponderebbe a questa obiezione?
Risponderei che è molto semplice, direi inevitabile, conciliare le due dimensioni: abitiamo tutti su un unico pianeta, e questo significa che la «terra» è la stessa, ma allo stesso tempo ognuno proviene da un luogo particolare, da un «terreno» specifico. È un'eredità della filosofia riduzionista l'idea che si diano opposizioni del tipo «questo oppure quello». Per quanto mi riguarda, la mia formazione nella teoria dei quanti, che esclude l'idea che ci siano elementi incompatibili e reciprocamente alternativi in favore di una concezione basato sulla congiunzione «e», mi porta a credere di poter disporre di un'identità profondamente locale, radicata nella valle dell'Himalaya dove sono nata e cresciuta, e insieme completamente planetaria, e che queste due forme di identità si tengano insieme senza contraddizioni. Anche i recenti attentati terroristici di Mumbai sono frutto dell'erosione delle forme di identità multiple a cui mi riferisco. Coloro che sono vulnerabili e «disponibili» a essere arruolati, pagati o sfruttati dagli estremisti di turno per compiere azioni di terrorismo sono quelli che sono stati allontanati a forza dalla loro terra, che sono stati resi superflui ed «eccedenti» rispetto alle proprie società; oppure quelli che vengono mobilitati e reclutati attraverso la costruzione fittizia di identità che si escludono a vicenda sulla base dell'opposizione «o questo o quello». In realtà, non si dà mai solo «o questo o quello», ma sempre un «questo e quello»: riusciremo a svincolarci dall'eredità delle identità incompatibili solo coltivando la nostra responsabilità verso il luogo particolare da cui proveniamo e insieme la consapevolezza che siamo parte di un'umanità comune, che condivide lo stesso pianeta.
Di Giuliano Battiston dal Manifesto del 6.1.09
Profilo di Vandana Shiva
Nata a Dehra Dun, alle pendici dell'Himalaya, nel 1952, formatasi con la teoria dei quanti, nel 1982 Vandana Shiva ha fondato la Research Foundation for Science, Technology and Natural Resource Policy e nel '91 ha dato vita al movimento Navdanya (Nove semi), che protegge la biodiversità. Premiata nel '93 con il Right Livelihood Award, Shiva è autrice di molti libri. Tra quelli tradotti: «Monoculture della mente» (Bollati Boringhieri 1995), «Vacche sacre e mucche pazze» (DeriveApprodi 2001), «Il mondo sotto brevetto (Feltrinelli 2002), «Terra madre» (Utet 2002), «Le guerre dell'acqua» (Feltrinelli 2003). Gli ultimi libri usciti sono «Dalla parte degli ultimi» (Slow Food) e «India spezzata» (Il Saggiatore), in cui ricorda che il miracolo economico della «shining India» riguarda «il 5 per cento del paese» e «è costruito sull'esclusione e lo sfruttamento del 95 per cento dell'India».