LA CRISI FINAZIARIA ED ECONOMICA
di F. Rampini
"La più
violenta crisi finanziaria dagli anni Trenta" la definisce il
Fondo monetario internazionale. Il paragone evoca il rischio che i
danni finali possano aggravarsi molto, prima di vedere una vera
schiarita. Se guardiamo all'indice più significativo della
Borsa americana (S&P 500), dal 7 settembre 1929 all'8 luglio 1932
la sua caduta fu dell'86%. Attualmente lo stesso indice ha perso
"solo" il 36% rispetto ai massimi dell'anno scorso.
Se
si prende alla lettera il parallelo tracciato dal Fondo monetario, la
distruzione di risparmio rischia di essere appena iniziata. E che
dire di beni ancora più essenziali che sentiamo minacciati, a
cominciare dai posti di lavoro? I paragoni storici vanno maneggiati
con cautela. Nella Grande Depressione degli anni Trenta il tasso di
disoccupazione in America raggiunse il 25% della popolazione attiva.
Oggi nonostante le ondate di licenziamenti siamo ancora sotto il 7%
di disoccupazione americana. La differenza storica fondamentale sta
nel salto immenso compiuto dalla presenza dello Stato nell'economia:
era minima nel 1929, oggi è pervasiva. Neppure la cosiddetta
"rivoluzione reaganiana e thatcheriana" degli anni Novanta
negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, con le privatizzazioni e la
deregulation, ha ridotto significativamente la quota del Pil che fa
capo al settore pubblico. Lo Stato non licenzia in una recessione.
Non smette di gestire scuole e ospedali. E' questo il potente
"stabilizzatore" che fu voluto proprio per evitare che si
ripetesse una Grande Depressione dai costi sociali spaventosi.
L'allarme resta,
tuttavia. Di questa crisi ignoriamo ancora la durata e i costi
finali. Le banche centrali hanno sfoderato ieri un "intervento
senza precedenti": così lo ha definito la Federal
Reserve. Il taglio concertato dei tassi d'interesse su scala globale
è stato operato simultaneamente dalla Fed e dalla Bce insieme
alle consorelle inglese, svizzera, canadese, svedese, perfino dalle
banche centrali della Cina e degli Emirati arabi uniti. Ma per i
mercati il gesto "senza precedenti" è tutt'altro che
risolutivo. Li assale il dubbio che le banche centrali usino
strumenti antiquati, che siano in ritardo di una crisi, che stiano
combattendo la guerra precedente.
A lungo le classi dirigenti
hanno sottovalutato questa tempesta. Ad ascoltare le imbarazzate
autodifese di tanti banchieri, si direbbe che il dramma sia scoppiato
in un baleno, come una calamità naturale, e in una
concatenazione così veloce che nessuno poteva prevederla. In
realtà i segnali precisi di un grave dissesto finanziario
originato dai mutui americani (e da altri eccessi di indebitamento)
risalgono alla fine del mese di giugno 2007.
Nell'agosto 2007
ci furono già pesanti turbative nel mercato del credito in
tutto il mondo. Al Forum di Davos a gennaio non si parlava d'altro
che della tempesta globale. Da quelle prime avvisaglie fino a oggi
sono già state scritte intere biblioteche sulle cause di
questo disastro, da autorevoli economisti come Robert Shiller (lo
stesso che aveva già denunciato negli anni Novanta la bolla
speculativa della New Economy e previsto il successivo crollo del
Nasdaq).
L'opinione pubblica ha il diritto di chiedere dei
conti su cosa è stato fatto durante questo lungo periodo
costellato di "preavvisi di uragano": quali misure furono
prese dai top manager delle banche, dalle autorità di
vigilanza, dai governi. E' sconcertante che spuntino nell'affanno dei
piani di emergenza estemporanei, per fronteggiare una crisi che si
sviluppa alla luce del sole da ben 16 mesi. I costi potevano essere
inferiori se i banchieri avessero detto la verità prima,
anziché sperare di farla franca e augurarsi di lasciare
l'ultimo cerino acceso in mano a qualche concorrente. Quel cerino ha
causato un incendio che era largamente annunciato. Ma dall'America
all'Europa i massimi esponenti dell'establishment sembrano i conigli
abbagliati all'improvviso dai fari dell'auto su una strada di notte.
Per essere stata a lungo esorcizzata, la recessione sarà
più estesa e più pesante, anche nelle conseguenze
sociali. L'epicentro cruciale del disastro non sono le Borse, e il
problema maggiore non è certamente il costo del denaro. E' la
crisi di fiducia generalizzata che paralizza il credito. Di questa
crisi sono protagoniste le banche per prime, affondate dalla
dimensione misteriosa delle loro esposizioni. Una veduta del baratro
su cui si affaccia il settore bancario si è avuta nei giorni
scorsi, quando in Germania certi esercizi commerciali hanno
cominciato a rifiutare i pagamenti con carte di credito emesse da
istituti inglesi. Arrivati sull'orlo di un simile abisso di paura, la
nazionalizzazione delle banche inglesi era una scelta obbligata. I
tagli dei tassi iniziati ieri sono solo il primo, timido passo nel
lavoro di lunga lena che impegnerà le banche centrali. Il loro
compito assomiglia alla rieducazione di un paziente colpito da ictus:
possono essere necessari mesi, forse anni, per ripristinare la
normalità in alcune funzioni. E' una funzione vitale per
l'economia reale il recupero di una base di fiducia e riattivare la
circolazione del credito.
Se a qualcosa serve il taglio dei
tassi, è a rendere meno cara la ricapitalizzazione delle
banche.
Ma sarà un'operazione onerosa, che può
richiedere ulteriori sforzi da parte dei contribuenti. Negli Stati
Uniti, se si sommano i salvataggi pubblici già effettuati, le
iniezioni di liquidità da parte della Fed, e il nuovo fondo
del Tesoro per rilevare i titoli - spazzatura delle banche, si arriva
già oggi ben oltre i 1.500 miliardi di dollari: è più
della metà dell'intero bilancio pubblico americano (incluse la
difesa e l'istruzione) ad essere già andato in fumo, in un
falò che sarà ricordato con sgomento per diverse
generazioni.
La Repubblica (9 ottobre 2008)