Slavi in Venezia Giulia, una storia dimezzata

A quella che fu la minoranza slovena sotto il fascismo è dedicato «Il confine degli altri» di Marta Verginella. Privilegiando testimonianze autobiografiche, fra cui quella dello scrittore Boris Pahor, la studiosa scompone la visione monolitica degli slavi proposta dal regime restituendo un universo multiforme e vivace

Enzo Collotti


Nel lavoro di revisione tuttora in corso di quella prospettiva nazionalista della storia della Venezia Giulia che ci è stata lasciata in eredità dal fascismo, uno degli aspetti ancora meno noti al pubblico italiano rimane la voce degli altri, degli sloveni, che il fascismo voleva espungere dalla storia costringendoli all'assimilazione forzata o ad allontanarsi dalla loro terra, e che oggi invece - dopo le catastrofiche conseguenze della guerra fascista, dopo il tracciato di nuovi confini e non da ultimo dopo gli sviluppi dell'integrazione nell'Unione europea che consente la libera circolazione tra l'Italia e Slovenia - sono nostri direttori interlocutori.

Residui risentimenti
Nonostante il grande rinnovamento che la più giovane storiografia italiana sul confine orientale ha compiuto negli ultimi venti anni (partendo dall'acquisizione dei risultati degli studi di Elio Apih, di Rino Sala e di altri, relativi al processo di snazionalizzazione delle popolazioni slave della Venezia Giulia, per allargare l'orizzonte alle vicende della seconda guerra mondiale e dell'ultimo drammatico dopoguerra), la storia dell'area nordorientale contesa tra Italia e Jugoslavia è rimasta sostanzialmente per il lettore italiano una storia a senso unico o nel migliore dei casi, quando comprendeva l'intera area, la storia vista dagli italiani. Anche difficoltà linguistiche, e non solo incomprensioni e residui risentimenti, hanno contribuito in modo notevole a creare barriere, oltre a quelle già così pesanti di carattere psicologico, e a scoraggiare la conoscenza reciproca delle due popolazioni contigue, quando non addirittura mescolate sullo stesso territorio.
Tra le realtà e le eredità culturali degli accesi nazionalismi di frontiera, una delle più nefaste è per l'appunto quella che ha alimentato una storia dimezzata, dall'una e dall'altra parte, con il sottinteso sottilmente razzista che soltanto la storia della propria parte e della propria civiltà era degna di essere raccontata in quanto espressione di un gruppo nazionale superiore. Siamo viceversa convinti che soltanto una storiografia che fosse capace di affrontare la storia dello spazio al di qua e al di là del confine in una visione unitaria senza mistificazione alcuna - e quindi senza perdere di vista le diversità e le molteplici variazioni interne alle due (o anche più) componenti nazionali - contribuirebbe in maniera sostanziale a creare con una buona conoscenza reciproca una reale collaborazione tra le storiografie e nei due stati vicini una cultura politica consapevole delle radici comuni e di comuni principi di convivenza.

La questione giuliana
Non è un cammino facile ma segni positivi si sono già registrati in passato, come nel caso della commissione di storici italiani e sloveni che fece conoscere alla fine del 1990 la conclusione dei propri lavori tuttora insufficientemente divulgati (ma il testo della sua relazione è raccolto ora nel volume a cura di Pierluigi Pallante Foibe. Memoria e futuro, Editore Riuniti). Un segno ancora più significativo è però costituito ora da un prezioso volume di Marta Verginella che si presenta come uno dei più cospicui contributi a fare conoscere nel resto d'Italia - grazie anche alla diffusione di un editore nazionale - le vicende di quella che fu la minoranza slovena nell'Italia fascista e alle origini delle vicende della Venezia Giulia sul finire della seconda guerra mondiale: Il confine degli altri. La questione giuliana e la memoria slovena (prefazione di Guido Crainz, Donzelli, pp. 128, euro 14).

Oppressori e vittime
Docente all'università di Lubiana, Marta Verginella da molti anni riflette sulla sorte delle popolazioni slave della Venezia Giulia, non secondo i canoni della storia politica ma interrogando e lavorando sui vissuti di uomini e donne, privilegiando fonti autobiografiche e memorialiste. Negli ultimi mesi fra l'altro, in collaborazione con l'Istituto per la storia del movimento di Liberazione di Trieste, ha curato un nutrito fascicolo di «Qualestoria» (La storia al confine e oltre il confine) dedicato alla storiografia slovena, assolvendo ad una funzione di informazione e di scambio culturale della quale sarebbe difficile sottovalutare l'importanza.
Il confine degli altri appare scritto in primo luogo per fare conoscere al pubblico italiano la parte poco nota o del tutto ignota di una storia che prima ancora di essere storia degli sloveni o dei croati è storia di tutti noi, italiani e sloveni e croati, è storia dello stato e della società italiana. È bene perciò che il pubblico italiano sappia come lo stato italiano ha trattato gli sloveni e i croati, che ha voluto suoi sudditi, perché non ha mai riconosciuto loro la dignità di cittadini. Questo non è un libro trionfalistico, non parla di vendette, parla di sofferenze durate decenni. Ci fa vedere come le sofferenze che gli italiani hanno rivendicato sempre e soltanto per sé, atteggiandosi costantemente a vittime, dimenticando quelle che come oppressori hanno inflitto agli altri, hanno fatto parte del vissuto anche degli sloveni, fossero essi soggetti diretti dell'oppressione, costretti all'esilio o alla scelta di una emigrazione certamente non volontaria da cui derivavano, all'atto dell'insediamento fra gli sloveni al di là del vecchio confine, fenomeni di «spaesamento» e difficoltà di radicamento consueti a tutte le comunità di migranti ma qui acuite dalla pressione degli opposti nazionalismi e dall'asfissia claustrofobica che rischia di soffocare le minoranze assediate. Tra i risultati più fecondi di questo libro considererei la scomposizione che Marta Verginella opera di quella visione stereotipata degli «slavi», presi in blocco come fossero un'entità monolitica, nei quali il fascismo di frontiera (e non solo) volle additare il nemico da neutralizzare e al limite da distruggere. In realtà, gli sloveni che vivono tra Trieste e dintorni costituiscono una società molteplice e variegata, nella stratificazione sociale come nelle appartenenze politiche, sono contadini, operai, commercianti, professionisti, preti, intellettuali; sono cattolici, liberali, nazionalisti, comunisti. Un universo attraversato dalle mille tensioni dell'epoca e tuttavia animato da una forte attività nella difesa della propria cultura e della propria lingua prima ancora di una vera e propria identità.
Fa specie incontrare tra i testimoni di questo libro un personaggio come Boris Pahor, scrittore triestino di lingua slovena, il cui libro Necropoli (Fazi, pp. 280, euro 16) sull'odissea concentrazionaria cui lo condannò la partecipazione alla Resistenza, fu scritto nel 1966 ma soltanto poco più di dieci anni fa poté avere una limitata tiratura in lingua italiana e forse solo ora che è stato riedito da un editore di livello nazionale con la presentazione di Claudio Magris entrerà nel circuito di conoscenza che merita.

Gli abitanti dei cimiteri
La citazione non è gratuita: in questo straordinario libro che è Necropoli Pahor ripercorrendo la sua esistenza non può esimersi dal tracciare una linea dal suo essere stato testimone sin dal 1920 - nell'«angoscia della comunità rinnegata» - delle violenze squadriste a Trieste ai traumi degli anni successivi sino a culminare nell'orrore del lager: «Il tutto divenne ancor più mostruoso quando a decine di migliaia di persone furono cambiati il cognome e il nome, e ciò non soltanto ai vivi ma anche agli abitanti dei cimiteri. Ed ecco che quella soppressione che era durata un quarto di secolo raggiungeva nel campo il suo limite estremo riducendo l'individuo ad un numero».
L'immagine potente di Pahor prefigura il piano inclinato che portò a frodare «di ogni visione dei giorni futuri» tanti uomini e tante donne della componente slovena. Non poteva sfuggire alla sensibilità dell'autrice la come gli imputati del processo di Trieste del 1941 che dimensione dello scherno, dell'offesa di cui erano gratificati gli esponenti della minoranza, trattati al di sotto di ogni livello di umanità,vennero apostrofati come «omuncoli impastati di odio» o, peggio ancora, come un «groviglio immondo di rettili umani striscianti nell'ombra e nel fango».

Un finale incandescente
Tra le molte altre cose che varrebbe la pena di menzionare di questo piccolo ma denso libro, va segnalato in particolare il quarto capitolo (L'essenza nazionalista dell'antiitalianità), nel quale l'autrice risale alle radici nell'Ottocento asburgico degli antagonismi nazionali e all'irrigidimento dello scontro tra «risveglio slavo» e politica di difesa della nazione italiana, con la precoce tendenza a realizzare il gioco delle reciproche esclusioni, che sarà inasprito dalle due guerre mondiali, sino alla rivendicazione di una Trieste slovena dopo lo spartiacque decisivo dell'invasione fascista del 1941 e più ancora dell'8 settembre del 1943, che rafforzò la convinzione che tutto il litorale dovesse entrare a far parte dei confini della nuova Jugoslavia.
Un finale incandescente del quale fu parte la tragedia delle foibe, che inghiottirono collaborazionisti di fascisti e nazisti ma anche antifascisti italiani e sloveni invisi alle autorità d'occupazione jugoslave. Per concludere, «un libro necessario», lo definisce nella breve ma intensa prefazione Guido Grainz, che alla contestualizzazione della questione giuliana aveva già offerto un importante contributo con il volume Il dolore e l'esilio, L'Istria e le memorie divise d'Europa , sempre presso Donzelli: una valutazione che ci sembra di dovere sottoscrivere senza alcuna riserva.