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18/03/2008
La distribuzione della ricchezza nazionale *
di
Giuseppe Ugo Rescigno
Indice-sommario: 1. Premessa; 2. La Costituzione come progetto; 3. Che cosa si intende per distribuzione della ricchezza; 4. Gli articoli della Costituzione italiana sulla distribuzione della ricchezza; 5. Il secondo comma dell’art. 3 (l’eguaglianza sostanziale); 6. Gli articoli 1 e 4 (il lavoro come fondamento della Repubblica e il diritto al lavoro; 7. Il dovere del lavoro (il secondo comma dell’art. 4); 8. Il lavoro dipendente (art. 36); 9. Le successioni ereditarie; 10. Sulla eguaglianza nei punti di partenza: famiglia e scuola; 11. Il diritto alla salute (art. 32); 12. Previdenza e assistenza (art. 38); 13. Gli articoli da 42 a 47 (sulla proprietà ed i tipi di proprietà); 14. Il sistema tributario (art. 53); 15. Eguaglianza sostanziale e principio di sussidiarietà sociale.
1. Premessa
Il titolo del convegno ha un senso chiaro: tracciare un bilancio intorno alla Costituzione italiana sessanta anni dopo la sua entrata in vigore seguendo il criterio della qualità della vita. Questo criterio così generale è produttivo di conoscenza soltanto se si articola in diversi settori, e cioè diventa confronto specifico, settore per settore, tra come eravamo in quel settore nel 1948, come siamo divenuti nel corso di sessanta anni, come siamo oggi. Correttamente le relazioni scandiscono i temi dell’analisi, e cioè i diversi settori nei quali condurre il confronto alla luce del criterio generale: 1) le libertà individuali; 2) l’amministrazione pubblica; 3) la giustizia; 4) le prestazioni sociali ; 5) il rapporto tra Costituzione italiana ed Unione europea; 6) la produzione della ricchezza nazionale; 7) la distribuzione della ricchezza socialmente prodotta; 8) la determinazione della politica nazionale.
Questa relazione si occupa del bilancio dal punto di vista giuridico nel settore “La distribuzione della ricchezza nazionale”. La diversa formulazione del titolo (“la distribuzione della ricchezza nazionale” anziché “la distribuzione della ricchezza socialmente prodotta”) vuole richiamare l’attenzione sul fatto che la relazione intende occuparsi della ricchezza nazionale nel senso economico della espressione, intesa sia come insieme dei beni capitali accumulati nel tempo sia come flusso di produzione annuale, mentre ricchezza socialmente prodotta è espressione che potrebbe prestarsi ad indicare una realtà molto più ampia, comprensiva ad esempio della cultura, delle tradizioni, delle istituzioni, dei costumi, e così via (se ed in quanto sviluppo culturale, tradizioni, istituzioni, costumi, e così via, sono visti come un arricchimento del vivere in società).
2. La costituzione come progetto
Poiché l’oggetto del giudizio è la Costituzione italiana, il convegno e la sua articolazione presuppongono che la Costituzione possa essere vista anche come un progetto. Il progetto contenuto in una moderna costituzione scritta (o implicitamente in una moderna costituzione vivente, anche se non scritta) può articolarsi in tre parti: la prima è coessenziale a qualunque costituzione e quindi è necessaria; la seconda è coessenziale alle costituzioni scritte dei tempi moderni (e cioè del tempo successivo alle prime e grandi costituzioni americana e francese); la terza è tipica di quasi tutte le costituzioni contemporanee, a partire da quella di Weimar.
La prima parte disegna e costruisce la struttura del potere politico, individuando le sue componenti e le relazioni fondamentali che le collegano (il Parlamento, il Capo dello Stato, il Governo, la Corte costituzionale, e così via: nella nostra Costituzione corrisponde grosso modo alla Parte seconda del testo). La seconda parte tutela le libertà ed i poteri degli individui, sia come singoli sia come componenti di organizzazioni sociali, e cioè pone limiti ai poteri pubblici (le libertà che essi non possono togliere o diminuire) e impone doveri strumentali per la tutela di tali diritti (la giurisdizione, la forza pubblica, e così via). La terza parte, se c’è, indica alle autorità pubbliche obbiettivi e risultati da raggiungere e conservare, cosicché lo stato di cose prefigurato dipende proprio dalla iniziativa e dalla attività delle autorità pubbliche. Nel testo della Costituzione italiana queste due ultime parti sono mescolate in quella che ufficialmente figura come Parte prima: però non è difficile nella maggioranza dei casi separare le disposizioni (ad es. gli articoli da 13 a 28) che stanno a tutela della libertà e dell’autonomia dei singoli e delle formazioni sociali rispetto alle disposizioni che chiedono alla Repubblica (e cioè a tutte le autorità pubbliche) di agire in positivo, non tanto per prevenire e reprimere attentati alla libertà ed alla autonomia dei singoli e delle formazioni sociali, quanto per raggiungere e conservare quegli obbiettivi e quei risultati indicati nelle disposizioni pertinenti.
Questa terza parte, enucleabile dal testo costituzionale, ha ricevuto in modo significativo e corretto il nome di parte programmatica, e le norme che rientrano in questa parte sono state e vengono chiamate norme programmatiche.[1]
Può sembrare che questa nomenclatura e le distinzioni alle quali essa rimanda rendano erronea la qualificazione di progetto precedentemente offerta della intera Costituzione italiana. E’ questione di intendersi: non tutti i progetti hanno la stessa qualità e portano alle medesime conseguenze. La prima parte delle costituzioni, quella dedicata alla organizzazione del potere pubblico, è un progetto intorno ai futuri progettatori: dice quali sono tali progettatori futuri, in quali campi sono competenti, quali procedure debbono o possono seguire, quali limiti incontrano. La seconda parte si rivolge alle persone e dice quali sono le libertà ed i poteri da essi goduti e per essi protetti dal sistema, quali i modi e gli organi deputati alla protezione, quali i comportamenti che essi comunque non debbono tenere a tutela delle libertà e dei poteri altrui. La terza parte dice alle autorità pubbliche quali risultati concreti essi debbono perseguire e raggiungere. In tutti i casi si tratta di progetti, come del resto accade per ogni legge che si rivolge al futuro e chiede agli esseri umani di comportarsi secondo e sulla base delle leggi. Si tratta però pur sempre di progetti in parte diversi.
3. Cosa si intende per distribuzione della ricchezza
Il tema della presente relazione rientra chiaramente in questa terza parte, quella programmatica.
La prima cosa da chiedersi è appunto se la Costituzione italiana del 1948 contiene disposizioni che, direttamente o indirettamente, si occupano della distribuzione della ricchezza nazionale, e cioè prescrivono regole e contengono principi che incidono o dovrebbero incidere sulla distribuzione della ricchezza nazionale, in modo tale che questa distribuzione, se conforme alle regole ed ai principi in materia, dovrebbe essere diversa da quella che sarebbe determinata spontaneamente dal gioco economico (e quindi essenzialmente dal libero mercato). Se disposizioni del genere vi sono (e come vedremo vi sono), si tratta allora di mettere a confronto lo stato delle cose qual era nel 1948 con lo stato delle cose quale si è sviluppato nel corso di sessanta anni fino allo stato delle cose qual è nel 2008.
Però, per rispondere a questa specifica domanda, diventa necessario chiarire che cosa si intende per distribuzione della ricchezza, tenuto conto anche del fatto che sono previste due diverse relazioni, una di un giurista e l’altra di un economista, sul tema “La produzione della ricchezza”, ed altre relazioni ancora sulle prestazioni sociali. Produzione e distribuzione della ricchezza sono nozioni non giuridiche, che il giurista, se vuole o ne ha bisogno (come nel nostro caso), recepisce dalle scienze economiche, eventualmente adattandole alle caratteristiche della sua disciplina.
Distribuzione della ricchezza designa due cose collegate ma significativamente diverse secondo la definizione di ricchezza che si segue.
Se la ricchezza viene definita come l’insieme di tutte le cose utili ed i servizi, le une e gli altri prodotti e venduti o comunque ridistribuiti nell’arco di un periodo determinato (è comunque, come già precisato, una definizione di ricchezza molto riduttiva rispetto al senso comune, per il quale anche la cultura e l’istruzione ad es. sono una ricchezza, indipendentemente dal fatto che siano o non siano misurabile in termini di beni e servizi), in sintesi quello che viene chiamato PIL o Prodotto interno lordo, è possibile idealmente, e spesso anche praticamente, fare distinzione tra il momento della produzione di una tale ricchezza e il momento della distribuzione di essa tra tutti i consociati. La distinzione è del tutto chiara e trasparente quando la ricchezza prodotta da alcuni viene fatta propria da altri che non hanno partecipato alla sua produzione (ad es. dall’organizzazione statale mediante i tributi), ed eventualmente distribuita tra altri in modo indipendente rispetto al contributo che essi hanno dato alla produzione della ricchezza distribuita (più comunemente in questo caso si dice ridistribuita, per sottolineare che c’è stata una prima distribuzione legata alla produzione, alla quale segue una diversa distribuzione ad opera di un altro soggetto: in un sistema capitalistico la produzione determina anche una distribuzione diretta in termini di rendita, profitto e salari, ma il fisco si appropria di una quota più o meno ampia a carico di ciascuna delle tre classi di reddito, e usa questa ricchezza per le spese decise dalle autorità pubbliche; se poi queste spese vadano considerate dal punto di vista economico soltanto redistribuzione, o soltanto produzione di beni e servizi, che quindi entrano nella contabilità del PIL, oppure ora mera redistribuzione ora produzione di beni e servizi, è questione che non posso e del resto non so affrontare: dal punto di vista giuridico è sempre una forma di redistribuzione, perché una ricchezza in danaro viene sottratta ai privati mediante i tributi e diversamente spesa, e cioè nuovamente distribuita, senza sapere a questo punto della analisi a vantaggio di quali gruppi o persone questa redistribuzione andrà).
Se invece per ricchezza si intende l’insieme delle risorse sia naturali che prodotte che sono in proprietà di ciascuna persona e dell’insieme dei soggetti di una comunità (non quindi il reddito annualmente prodotto, ma l’insieme delle risorse accumulate e detenute), distribuzione della ricchezza vuol dire spartizione di tali risorse all’interno della comunità, tale per cui le proprietà possono essere e sono profondamente differenziate in qualità e quantità, e con le diverse proprietà naturalmente sono profondamente differenziate le possibilità che ciascuno ha in proporzione alla quantità complessiva di proprietà, e cioè di risorse, di cui dispone.
La Costituzione quindi può intervenire sulla distribuzione in due modi diversi: o cercando di incidere sul reddito, o cercando di incidere sulla proprietà.
4. Gli articoli della Costituzione sulla distribuzione della ricchezza
In base a queste grossolane notazioni mi pare possibile distinguere tra disposizioni costituzionali che riguardano esclusivamente o prevalentemente la produzione della ricchezza, e disposizioni che riguardano esclusivamente o prevalentemente la distribuzione, sia la distribuzione nella proprietà sia la distribuzione nel reddito, e in questo secondo caso sia quella distribuzione nel reddito che si realizza come portato diretto della produzione, sia quella che consiste prevalentemente in una ridistribuzione. Una legge sul salario minimo garantito (posto che esista) incide certamente sulla produzione (se non altro perché incide sulla determinazione dei costi e dei prezzi delle merci) ma ha lo scopo prevalente di disciplinare un momento della distribuzione. L’art. 53 secondo cui il sistema tributario è informato a criteri di progressività riguarda la distribuzione della ricchezza prodotta, e meglio ancora la base che rende possibile la ridistribuzione della ricchezza. L’articolo 41, sulla iniziativa e l’attività economica pubblica e privata, riguarda prevalentemente la produzione; gli articoli 42 sulla proprietà e 43 sulle possibili nazionalizzazioni (possibili secondo il testo della Costituzione italiana) riguardano sia la produzione della ricchezza che la sua distribuzione in termini di proprietà. Si spiega così la scelta seguente volta a selezionare entro il testo costituzionale soltanto i principali articoli che hanno come scopo prevalente se non esclusivo quello di intervenire ora sulla distribuzione della proprietà ora sulla distribuzione della ricchezza prodotta, ed in questo secondo caso ora come diversa distribuzione alla fonte, ora più propriamente come ridistribuzione.
Gli articoli della Costituzione italiana che ci interessano, senza distinguere se riguardano prevalentemente la distribuzione della proprietà o la distribuzione del reddito o ambedue, data la difficoltà se non impossibilità della distinzione in questa sede, sono principalmente:
a) anzitutto il secondo comma dell’art. 3, sulla eguaglianza cosiddetta sostanziale;
b) gli articoli 1 e 4, primo e secondo comma, a proposito del lavoro, e l’art. 36 a proposito del lavoro dipendente;
c) l’art. 31, sulla famiglia;
d) l’art. 32, sulla salute;
e) gli articoli 33 e 34, sulla scuola, ed il connesso art. 38, terzo comma sulla formazione professionale;
f) l’art. 38, sulla assistenza e la previdenza;
g) l’art. 42, sulla proprietà;
h) l’art. 43, sulle nazionalizzazioni;
i) l’art. 44, sulla proprietà della terra coltivabile;
j) l’art. 45, sulla proprietà cooperativa e su quella artigiana;
k) l’art. 47 sul risparmio, la proprietà dell’abitazione, la proprietà diretta coltivatrice, la proprietà in azioni;
l) l’art. 53, sui tributi.
Naturalmente tutti questi articoli possono essere esaminati sotto angolature diverse, che in molti casi sono prevalenti rispetto a quella qui seguita: così è evidente che gli articoli sulla famiglia e sulla scuola hanno come oggetto anzitutto fenomeni sociali complessi che travalicano di molto il tema della distribuzione della ricchezza. E’ evidente dunque che di questi articoli saranno esaminati soltanto quegli aspetti e quelle implicazioni che hanno una qualche attinenza con la distribuzione della ricchezza, e nulla verrà detto su aspetti che non toccano la distribuzione della ricchezza (se non nel senso banale che tutto si collega con tutto, e quindi qualunque parte della realtà viene determinata e concorre a determina tutti i momenti in cui si articola il vivere sociale).
5. Il secondo comma dell’art. 3 (l’eguaglianza sostanziale)
Il secondo comma dell’art. 3 recita: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
E’ evidente che, tra le disposizioni programmatiche, questa è la più generale di tutte: indica il risultato massimo e finale dell’intero progetto costituzionale: raggiungere una eguale libertà anche sul piano economico e sociale (eguaglianza sostanziale, si dice per brevità, per distinguerla dalla eguaglianza formale sancita nel primo comma dello stesso art. 3), come mezzo indispensabile per il pieno sviluppo della persona umana e per la effettiva partecipazione alla organizzazione politica economica e sociale del Paese Italia..
Per questa ragione questa proclamazione di principio va (o meglio dovrebbe essere) considerata anzitutto come principio dei principi, come chiave di volta per comprendere ed interpretare le altre disposizioni programmatiche più specifiche, che vanno viste come momenti e strumenti per realizzare i fini e gli obbiettivi del secondo comma dell’art. 3. Per questa ragione riprenderemo l’esame di questa disposizione alla fine della analisi, come riassunto e giudizio globale, non su quello o quell’altro aspetto specifico del nostro tema, ma sul tema in generale, e cioè la distribuzione del reddito nazionale prodotto e della proprietà: dovremo chiederci se quanto è stato progettato dalla nostra Costituzione in tema di distribuzione del reddito e della proprietà ha rimosso, almeno in parte, gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale; nel caso di un giudizio negativo (come mi pare ovvio rispetto alla grandiosità del progetto enunciato nel secondo comma dell’art. 3) dovremo chiederci se tale risultato è stato determinato da inosservanza nei confronti della Costituzione (del testo della Costituzione) o anche o prevalentemente per contraddizioni interne al testo costituzionale, che nell’art. 3, secondo comma, ha fatto promesse che non poteva onorare, dato il sistema economico e sociale che l’intero testo costituzionale ha in qualche modo costruito e garantito.
6. Gli articoli 1 e 4 (il lavoro come fondamento della Repubblica e il diritto al lavoro)
Il primo comma dell’art. 1 proclama: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” Non ci sono altri fondamenti, secondo il testo della Costituzione: danaro, mercato, concorrenza, profitto, proprietà non costituiscono fondamento della Repubblica. Se vogliamo dare un senso a questa solenne proclamazione, dobbiamo almeno dire, o dovremmo almeno dire, che, se danaro, mercato, concorrenza, profitto, proprietà, ed altro ancora, sono anch’essi previsti e tutelati dalla Costituzione (come in effetti è), essi costituiscono aspetti e momenti della vita associata subordinati al valore fondante costituito dal lavoro: il lavoro dunque, in quanto valore fondante, quando viene collegato con altre disposizioni , qualunque sia il loro livello, costituzionale o meno, costituisce un criterio di giudizio e di interpretazione intorno a qualunque altra disposizione, che deve essere accolta e interpretata solo se coerente col valore fondante del lavoro.
Veniamo così immediatamente all’art. 4, di cui non dobbiamo leggere solo il primo comma ma anche il secondo comma (che oggi viene totalmente ignorato e di fatto sbeffeggiato). Esso nel primo comma dice e non dice: dice che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”, ma subito dopo aggiunge “e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.” La Costituzione cioè è consapevole che il sistema economico da solo non garantisce il lavoro a tutti; ammette in tal modo che essa Costituzione non è in grado di garantire a tutti il lavoro (e cioè confessa che giuridicamente il diritto al lavoro non è un vero diritto); però impegna tutto il sistema politico a promuovere le condizioni che rendano effettivo questo “diritto”, e cioè impegna il sistema politico ad inventare e introdurre quelle disposizioni normative e quelle attività materiali che nei fatti siano in grado o dovrebbero essere in grado di assicurare la piena occupazione.
La piena occupazione è un obbiettivo costituzionale. Non raggiungere la piena occupazione è comunque contrario a Costituzione.
Una conseguenza coerente con questo principio dovrebbe essere che, se la Repubblica di fatto non riesce a garantire a tutti il lavoro, dovrebbe allora comunque garantire a tutti un reddito equivalente al mancato lavoro. In altre parole l’inadempimento a questo obbligo gravante sulla Repubblica dovrebbe dar luogo ad un risarcimento per equivalente, se le parole hanno un senso. Naturalmente la Repubblica dovrebbe trarre dai tributi le risorse necessarie e sufficienti per questo risarcimento: nella distribuzione della ricchezza dovrebbe rientrare anche quella massa di redistribuzione a carico dell’intero prodotto nazionale lordo che risarcisce chi ha cercato lavoro e senza sua colpa non lo ha trovato.
Come è ben noto, questo istituto, che dovrebbe garantire a qualunque cittadino maggiorenne che ha cercato lavoro e non lo ha trovato senza sua colpa un reddito sostanzialmente equivalente a quello che mediamente viene offerto da un lavoro retribuito, in Italia non esiste, ed anche dove qualcosa del genere esiste, si tratta di meccanismi temporanei e molto al di sotto di un reddito dignitoso. La Costituzione per la verità dice nell’art. 38 che “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di … disoccupazione involontaria” ma, a parte ogni valutazione intorno alla adeguatezza della quantità di reddito che negli anni è stata assicurata ed oggi viene assicurata con gli istituti della indennità di disoccupazione e con quello della cassa integrazione guadagni, sta di fatto che a) non è prevista, e non si ritiene che sia costituzionalmente obbligatoria una retribuzione a tutti i maggiorenni che chiedono di lavorare se non hanno ottenuto lavoro senza loro colpa; l’indennità di disoccupazione viene data a coloro che lavoravano ed hanno perso il lavoro, non a tutti coloro che sono in cerca di lavoro; b) i meccanismi compensatori, che non sono universali ed automatici, danno luogo a redditi molto inferiori alla media delle retribuzioni; c) spesso, per non dire sempre, sono a tempo determinato.[2]
Continuando a prendere sul serio il diritto al lavoro, la conclusione che in termini logici ne ho tratto, secondo cui chi cerca lavoro e senza sua colpa non lo trova ha comunque diritto ad un reddito dignitoso e sufficiente (si tratterà di calcolare con ragionevolezza tale reddito, ma è questione che qui non interessa), comporta, ancora secondo logica, che se x persone ricevessero un reddito senza lavorare perché cercano lavoro e non lo trovano, è segno che tutti gli altri che lavorano avrebbero prodotto un reddito complessivo sufficiente per retribuire anche queste persone che non lavorano (infatti è dal PIL che verrebbe detratta quella parte che servirebbe a retribuire coloro che non hanno trovato lavoro), e cioè è segno che essi lavorano troppo rispetto a quanto ricevono, cosicché basterebbe diminuire il loro tempo di lavoro, far lavorare i disoccupati, dare ad essi direttamente la retribuzione corrispondente al loro lavoro: il risultato finale è che la quantità complessiva prodotta e ridistribuita sarebbe la medesima di prima, ma tutti lavorerebbero e tutti lavorerebbero per un tempo individuale inferiore a quello precedente, con grande vantaggio per la libertà di tutti. In altre parole il diritto al lavoro, in una società che persegue e ottiene con successo un continuo aumento della produttività, ha senso solo se viene legato costantemente alla diminuzione del tempo individuale di lavoro (si tratta di un tempo necessario perché è quello che bisogna impiegare per dare alla società in termini di cose e servizi l’equivalente di ciò che si riceve per i propri bisogni).[3] Come ottenere questa continua e progressiva riduzione del tempo di lavoro per ciascuno dovrebbe essere appunto uno dei compiti del potere pubblico (e cioè del potere collettivo). Di tutto ciò non esiste alcuna traccia nella legislazione, nella pratica, nella ideologia dominante: come tutti sanno il tempo di lavoro, per i lavoratori salariati (ma, sotto la sferza del mercato, per tutti i lavoratori) sta crescendo; lo spettacolo stupefacente, e per me segno di follia collettiva, è che più cresce la produttività del lavoro (e cresce in maniera straordinaria) più resta fermo da decenni e addirittura si accresce il tempo di lavoro necessario (con espulsione enorme dal mercato del lavoro di milioni di potenziali lavoratori, non solo e non tanto i disoccupati ufficiali, quanto coloro che sapendo di non trovarne neppure lo cercano; se poi qualcuno osserva che molti non lavorano perché preferiscono comportarsi così, e dunque è un loro diritto non lavorare, faccio notare che il secondo comma dell’art. 2 dice che esiste anche il dovere di lavorare).
A questo punto (tralasciando riflessioni intorno a cose ieri come oggi inesistenti) per fare un bilancio dovremmo svolgere tre analisi in parallelo: da un lato l’andamento della disoccupazione, non solo quella ufficiale, ma anche quella nascosta, che come è noto è molto più alta, ed è costituita da tutte quelle persone che smettono di cercare lavoro sapendo di non trovarlo, e che invece verrebbero invogliate a lavorare se ci fossero possibilità (ricordando che secondo il secondo comma dell’art. 4 il lavoro non è solo un diritto, ma anche un dovere); dall’altro lato le statistiche sulle cosiddette indennità di disoccupazione, dal 1948 ad oggi, oppure su quei meccanismi temporanei che sostengono i lavoratori licenziati o sospesi dal lavoro (cassa integrazione guadagni); infine tutte quelle politiche di investimento pubblico specificamente rivolte a creare posti di lavoro (politiche ben presenti fino agli anni settanta, e via via smantellate e oggi quasi del tutto assenti: ciò che oggi rimane sono gli investimenti pubblici in infrastrutture, che però non hanno come principale obbiettivo quello di diminuire la disoccupazione).
Quali che siano le conclusioni intorno alle tre indagini indicate (e che qui non compio poiché travalicano le competenze di un giurista), resta assodato che: 1) non solo non vi è mai stata in Italia piena occupazione, ma la piena occupazione non è mai stata un obbiettivo seriamente perseguito; 2) la costante riduzione del tempo di lavoro, che della piena occupazione è il risvolto necessario in periodi di aumentata produttività del lavoro (e cioè, in un sistema capitalistico, sempre), non è mai comparsa nell’ agenda politica.
7. Il dovere del lavoro (il secondo comma dell’art. 4)
Del tutto dimenticato il secondo comma dell’art. 4: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Il senso della frase è sufficientemente chiaro: ogni cittadino è sì libero di scegliere tra molte diverse attività o funzioni, ma una attività o funzione deve comunque sceglierla. Chi sono coloro che si sottraggono a questa scelta obbligatoria e, secondo Costituzione, vanno contro un principio fondamentale? Sono coloro che, pur avendo sufficienti capacità fisiche e mentali, si limitano a ricevere ricchezza senza dare nulla in cambio; cioè, se vogliamo prendere sul serio le parole della Costituzione, chi non fa nulla per gli altri e soltanto perché ha ricevuto per eredità e/o ha accumulato un patrimonio (qualunque sia la fonte di esso) riceve ogni anno un reddito da tale patrimonio. Notare che la Costituzione tutela anche il risparmio (art. 47), e dunque non è vietato, anzi è tutelato, investire i propri risparmi in modo tale da ricavarne un utile. Però, se vogliamo conciliare questo aspetto con il secondo comma dell’art. 4, dovremmo dire appunto che, come dice il testo, deve trattarsi di risparmio, e cioè di sottrazione al consumo di parte di quel reddito che deriva ad ogni lavoratore, nel senso più ampio della parola, dalla sua attività o funzione utile alla società. Se invece tale reddito non è propriamente risparmio (nel senso ora definito), e cioè deriva da un mero titolo di proprietà che non costituisce in alcun modo contropartita di un dare alla società in termini di lavoro, esso, se non vietato (dal momento che la Costituzione non dice di vietarlo), dovrebbe essere riguardato almeno con sfavore. La cosa tragicomica del nostro come di ogni altro sistema capitalistico conosciuto è che questi tali redditieri nullafacenti (in termini di lavoro per la società, beninteso, perché in pratica, grazie alle loro ricchezze, fanno tantissime cose per loro gradevoli e gratificanti) vengono privilegiati. Qui si comincia a vedere l’importanza ed il significato della interpretazione sistematica della Costituzione, se condotta con onestà e coerenza. Il legame che ora intendo stabilire è con l’art. 53. A rigore c’è un solo modo per tenere insieme il principio della tassazione progressiva dell’art. 53 e il dovere del lavoro socialmente utile del secondo comma dell’art. 4. Una volta stabilito, con scelta politica rispetto alla quale la Costituzione non dice nulla, qual é l’aliquota massima della imposta sul reddito personale, tutti i redditi derivanti da titoli di credito (e cioè una massa oggi immensa che sfugge ad ogni controllo) dovrebbero essere assoggettati, a scelta del contribuente, o alla aliquota massima (il contribuente cioè sa ed ammette che tali redditi superano lo scaglione assoggettato ad imposta con l’aliquota massima) oppure alla dichiarazione dei redditi, se il contribuente vuole ottenere, secondo diritto, una tassazione inferiore, perché inferiore al massimo tassabile è il suo reddito complessivo. Come è noto, oggi i redditi da capitale sono tassati con una imposta fissa del 12,5%. E’ superfluo ogni commento: mi limito a dire che ogni persona onesta deve riconoscere che si tratta di una cosa scandalosa (continuo a stupirmi che la cosa non desti scandalo e sia addirittura benevolmente ignorata).
Insomma chi non lavora, e ciononostante gode di redditi da proprietà immobiliare o mobiliare, ottiene un enorme vantaggio rispetto a chi lavora.
8. Il lavoro dipendente (art. 36)
L’art. 4 non distingue tra lavoro e lavoro: è lavoro quello dell’imprenditore, del libero professionista, del contadino coltivatore diretto, del lavoratore salariato, e così via. In altri articoli la Costituzione si preoccupa di specifici tipi di lavoratori. L’art. 41 si occupa degli imprenditori; l’art. 47 si occupa anche dei coltivatori diretti; l’art. 45 si occupa del lavoro in cooperativa e degli artigiani. In particolare nell’art. 36 si occupa dei lavoratori dipendenti, quelli cioè che hanno diritto ad una retribuzione in cambio della prestazione di una attività lavorativa alle dipendenze di un datore di lavoro. Il primo comma dice: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa.” Ognuno dirà se a suo parere gli attuali livelli salariali assicurano ai lavoratori dipendenti ed alle loro famiglie una retribuzione sufficiente per una esistenza libera e dignitosa. Un indice sintetico estremamente chiaro e significativo, soprattutto se giudicato alla luce sia del valore fondante del lavoro di cui all’art. 1 della Costituzione sia del principio di cui al secondo comma dell’art. 3, è quello che misura la quota percentuale che spetta all’insieme dei lavoratori dipendenti rispetto al PIL: se, a parità di numero percentuale dei lavoratori dipendenti sul totale della popolazione, ad essi va una quota parte del PIL decrescente, come da anni sta accadendo in Italia, è segno inequivocabile che di contro stanno crescendo i redditi da lavoro autonomo e da capitale, e cioè non è vero che il lavoro è il valore fondante della Repubblica ed è provato che l’obbiettivo indicato nel secondo comma dell’art. 3, che dovrebbe orientare anche l’interpretazione e la realizzazione dell’art. 36, non solo è lontano, ma oggi è ancora più lontano e viene perseguito l’obbiettivo esattamente opposto.
9. Le successioni ereditarie e le donazioni
E’ un principio liberale l’eguaglianza nei punti di partenza. E’ ragionevole ritenere che, come il meno sta nel più, questo principio stia implicitamente all’interno del principio più generale enunciato dal secondo comma dell’art. 3: mi pare evidente che porre i cittadini in condizioni eguali nei punti di partenza sia condizione non sufficiente ma necessaria per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che la Costituzione vuole siano rimossi. A rigore questo vorrebbe dire che nessun cittadino maggiorenne dovrebbe godere, quando comincia la sua vita indipendente (e cioè in principio con la maggiore età), di risorse maggiori rispetto ad altri che egualmente cominciano la propria vita indipendente.. Questo ci porta ad una analisi sulle successioni ereditarie e delle donazioni, ed alla conclusione che la Repubblica non solo si è disinteressata del tema ma addirittura è passata ad una legislazione ancora più favorevole verso le successioni ereditarie e le donazioni.
Siccome però il testo costituzionale in materia di successioni ereditarie si limita a porre una mera riserva di legge, non possiamo dire che in tale questione vi sono promesse della Costituzione, e quindi trarre un bilancio alla luce delle promesse costituzionali. La Costituzione si limita a dire che vi debbono essere norme che garantiscono la successione ereditaria, che però vi debbono essere limiti, che debbono esservi sia successioni legittime che testamentarie, che debbono essere previsti anche i casi nei quali è lo Stato a succedere, ma demanda poi alla legge tutte le quantificazioni e le disposizioni che articolano la materia successioni ereditarie. La legge dunque, se il legislatore volesse, potrebbe (ma non è obbligata ad) usare le successioni ereditarie per operare una continua redistribuzione nelle proprietà al fine di porre tutti i giovani in condizioni di partenza eguali (naturalmente dovrebbe tassare allo stesso modo le donazioni, per l’ovvia ragione che se non facesse così le regole sulle successioni ereditarie verrebbero facilmente eluse mediante donazioni in vita): sta di fatto che in sessanta anni la legge non si è mai posta questo obbiettivo ed oggi o ha tolto le tasse sulle successioni ereditarie e sulle donazioni (nel 2001) o le ha ridotte a valori praticamente simbolici.[4]
10. Sulla eguaglianza nei punti di partenza: famiglia e scuola
La Costituzione però indirettamente si occupa dei punti di partenza, attraverso strade diverse e per aspetti diversi. E’ ovvio che punti di partenza eguali vogliono dire una infanzia ed una giovinezza sostanzialmente eguali: chi nasce e vive in una famiglia di poveri ed analfabeti, ovviamente, tranne pochi casi eccezionali, giungerà alla maggiore età con uno svantaggio enorme rispetto a chi è vissuto in una famiglia ricca e colta. Qui si collocano i due temi strettamene collegati della famiglia e della scuola: sono le due leve principali attraverso cui vengono formate le nuove generazioni, e quindi il futuro di una società. Sono questi due momenti fondamentali attraverso i quali si realizza, o si può sperare di realizzare il programma del secondo comma dell’art. 3 (la riduzione appunto degli ostacoli di ordine economico e sociale di cui si occupa questa disposizione).
Per quanto riguarda la famiglia gli aiuti più significati da esaminare (e quindi le modificazioni nella distribuzione del reddito che consentono gli aiuti) sono: 1) gli assegni familiari; 2) la politica della casa; 3) gli asili nido e le scuole materne (sia per dare anche alle donne la possibilità effettiva di lavorare ed aumentare il reddito familiare, sia per dare ai bambini quei formidabili aiuti per la crescita morale e intellettuale che possono dare asili nido e scuole materne ben fatte).
Per quanto riguarda la scuola, i dati più significativi da prendere in considerazione riguardano l’analfabetismo, soprattutto quello chiamato di ritorno, e le percentuali di raggiungimento dei diversi livelli scolastici rispetto alle classi di partenza dei genitori (quindi ad es. percentuale di laureati per operai, di diplomati per operai, e così via).
Indici indiretti sulla efficacia ed efficienza della scuola sono la vendita di libri, di quotidiani, e così via, non tanto come numeri assoluti o percentuali sul totale della popolazione, quanto per classi sociali.
E’ impossibile in questa sede condurre una analisi così ricca, complessa e articolata quale quella enunciata in tema di famiglia e di scuola. Mi limito a ricordare per quanto riguarda la famiglia che gli assegni familiari sono stati e rimangono vergognosamente bassi, del tutto inadeguati rispetto ai bisogni delle famiglie con figli a carico. Per quanto riguarda la scuola in sessanta anni l’unica vera riforma che sta dentro lo spirito del comma secondo dell’art. 3 è stata fatta nel lontano 1962 (ad onore del Partito socialista di allora e di alcune sue straordinarie componenti: ricordo qui Tristano Codignola e Riccardo Lombardi) con la istituzione della scuola media unica obbligatoria fino a 14 anni, e con l’abolizione della precedente distinzione classista tra scuola media, che dava accesso alla suola secondaria ed alla quale si accedeva per concorso, e la scuola dell’avviamento per i figli dei lavoratori dipendenti e per i più poveri (che chiudeva il ciclo scolastico senza possibilità di andare oltre). Da allora ad oggi la scuola e l’università hanno continuato a selezionare secondo criteri classisti (tranne ovviamente i giovani dotati di notevoli capacità intellettuali: ma è nell’interesse delle classi più ricche e potenti assorbire continuamente nuovi elementi di valore capaci di garantire anche sul piano scientifico, culturale e manageriale la loro egemonia).
11. Il diritto alla salute (art. 32)
Questo è uno dei pochi casi, se non l’unico, nei quali la legge ordinaria, e cioè la pratica attuazione di un principio costituzionale (quello che tutela la salute), è andata molto oltre quanto scritto nel testo costituzionale. L’art. 32 nel primo comma dice: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.” La gratuità viene garantita agli indigenti, cioè ai poveri. Il sistema sanitario nazionale, istituito nel 1978, in buona sostanza, al di là dei c.d. tickets, e cioè contributi abbastanza esigui da versare in cambio delle prestazioni sanitarie, è, oltre che universale, anche gratuito per tutti, e non solo per gli indigenti. E’ bene discutere continuamente intorno ai costi, per diminuire quelli che costituiscono inefficienze e sprechi, e intorno alla qualità, affinché tutti ricevano cure e assistenza al meglio umanamente possibile; mi auguro che il popolo italiano, di fronte agli attacchi aperti e subdoli della famelica orda di interessi privati che non vede l’ora di mettere le mani in questa materia così ricca di promesse di profitti, sappia resistere e mantenere una delle poche strutture civili costruite dalla Repubblica di cui si possa dire che ha realizzato, almeno in una specifica materia, il fine del secondo comma dell’art. 3.
12. Previdenza e assistenza (art. 38)
Secondo un uso ormai pacifico la previdenza sociale (e cioè organizzata e imposta dalle leggi) è profondamente diversa dalla assistenza (fino a qualche anno fa chiamata anche, significativamente, assistenza e beneficenza nel vecchio art. 117 della Costituzione): nel primo caso, la previdenza, tutti i lavoratori di un determinato settore accantonano obbligatoriamente parte del loro reddito in vista di eventi futuri a cui far fronte (la vecchiaia, durante la quale non si lavora, la protezione dei figli e parenti a carico nel caso di morte prematura, la invalidità, ecc.), con l’intesa che tali accantonamenti vanno a costituire un fondo comune dal quale saranno tratti a tempo debito i mezzi necessari per far fronte a tali eventi. Nella previdenza dunque lavora un meccanismo mutualistico, di tipo assicurativo, per cui alcuni trarranno dal fondo maggiori benefici di altri (ad es. alcuni muoino prematuramente e non godono delle prestazioni previste, ed altri vivono molto a lungo). Spetta poi alle scienze attuariali calcolare a quanto deve ammontare questo accantonamento per garantire nel tempo a tutti gli aventi diritto le prestazioni previste. Insomma, a ben vedere, nella previdenza prevale il momento assicurativo e mutualistico, e cioè una forma di redistribuzione all’interno del gruppo di riferimento, che nel suo insieme, se i calcoli si rivelano esatti, ottiene esattamente quanto come gruppo aveva versato; c’è una redistribuzione tra gli aventi diritto, e non una redistribuzione tra tutti i gruppi sociali. Ci può essere una redistribuzione nei confronti della intera collettività se e quando le autorità pubbliche intervengono con i tributi per ripianare eventuali deficit.
Come è noto, il sistema previdenziale è stato sottoposto a profonde modificazioni, ed altre ancora vengono auspicate, in Italia ed in generale in Europa. L’opinione pacifica, mi pare, è che, al di là delle ragioni che secondo alcuni rendono necessarie tali riforme, e secondo altri no oppure permettono altri modi della riforma, l’attuale sistema genera prestazioni previdenziali inferiori alle precedenti per qualità e quantità. Questa constatazione è tanto più amara quando si riflette che c’è stato un periodo (grosso modo gli anni settanta del secolo scorso) durante il quale vi è stato un netto miglioramento del sistema pensionistico dal punto di vista delle prestazioni a favore dei lavoratori dipendenti. La cosa a me pare sbalorditiva: tutti ammettono che negli ultimi cinquanta anni sia il PIL che la produttività sono aumentati in maniera straordinaria: la mia domanda ingenua diventa: come è possibile che a fronte di questo enorme aumento corrisponda oggi un peggioramento del meccanismo previdenziale? La risposta consueta (perché è molto aumentata la vita media, cosicché le prestazioni previdenziali durano molto più a lungo, e non c’è più sufficiente corrispondenza tra accantonamenti e prestazioni) spiega perché vengano mutati i momenti degli inizi delle prestazioni previdenziali, ma non spiega affatto il peggioramento della quantità di tali prestazioni. Come è ovvio questa notazione rinvia non alla redistribuzione ma alla distribuzione del reddito: vuol dire che nel tempo le ragioni salariali sono peggiorate a tal punto che anche la redistribuzione mediante la previdenza deve peggiorare. Un altro bilancio negativo in termini di qualità della vita.
Con la assistenza pubblica c’è invece una effettiva redistribuzione, più o meno ampia secondo quanto prevedono le leggi e le decisioni delle autorità competenti, e secondo naturalmente la quota parte di tributi che viene destinata a questa funzione.
E’ impossibile in questa sede dare conto delle innumerevoli forme di assistenza, e meno ancora del loro andamento nel tempo. Mi limito a due osservazioni: 1) non sempre l’aumento delle prestazioni assistenziali è buon segno: spesso diventa la spia di insufficienze e fallimenti a monte, per cui persone che, lavorando quanto avrebbero potuto, o venendo tutelate nella salute e nella sicurezza quanto sarebbe stato possibile, potrebbero continuare a vivere una vita libera e dignitosa, sono invece costrette, per il fallimento di quelle vicende, a ricorrere alla assistenza; 2) c’è una profonda differenza, in termini di dignità e certezza, tra una assistenza costruita come diritto soggettivo perfetto, ed una assistenza rimessa alla bontà (per non dire alla carità) degli erogatori: il prevalere oggi della ideologia e della pratica della sussidiarietà orizzontale, per cui le autorità pubbliche dovrebbero intervenire solo se fallisce o è insufficiente la iniziativa dei privati (e cioè la carità), chiarisce di quanto peggiora in termini di dignità e certezza la condizione degli assistiti dalla carità e non dal diritto.
13. Gli articoli da 42 a 47 (sulla proprietà e sui tipi di proprietà)
Negli articoli da 42 a 47 gli aspetti che qui ci interessano sono quelli che riguardano la distribuzione nelle proprietà, e cioè la possibilità (se e in quanto prevista) che l’autorità intervenga nel modificare la distribuzione delle proprietà, togliendo proprietà ad alcuni e attribuendola ad altri, oppure favorendo certi tipi di proprietà, oppure contrastando altri tipi di proprietà, e così via.
Non è possibile condurre una analisi accurata, articolo per articolo, di questa questione (anche se, si noti, la questione qui posta è un aspetto quasi sempre secondario e marginale entro la complessiva tessitura di ciascun articolo, tessitura che spesso riguarda la produzione piuttosto che la distribuzione della ricchezza, o altri aspetti ancora diversi che solo tangenzialmente hanno a che fare con la produzione e la distribuzione della ricchezza).
Conviene dunque concentrare l’attenzione su alcuni punti particolarmente significativi.
Il primo punto da esaminare non viene enunciato dal testo costituzionale (come del resto non viene enunciato in nessun testo costituzionale) ma si ricava senza ombra di dubbio dalla realtà costituzionale (come si ricava in tutti i Paesi capitalistici, e cioè oggi quasi tutti). Non esiste limite massimo alla quantità di proprietà che ciascun individuo può arrivare a possedere. Non inganni il fatto che per qualche tipo di proprietà la conformazione stabilita dalla legge pone o può porre un limite massimo: questi limiti specifici riguardano questo o quel tipo di proprietà, ma non la proprietà in generale. Ciascun individuo, svariando su tutti i tipi previsti di proprietà, può accumularne, se vi riesce, quanta ne vuole. Conseguentemente non c’è alcun limite giuridico nelle differenze nelle proprietà: tra il maggior proprietario di quel momento e coloro che non hanno nessuna proprietà c’è un ventaglio infinito di differenze giuridicamente possibili, e nel tempo un variare del ventaglio senza limiti.
Nella storia repubblicana vi sono soltanto due casi ampi e significativi di interventi pubblici nella distribuzione delle proprietà, ed ambedue molto lontani.
Il primo si ebbe negli anni cinquanta, con la riforma agraria che distrusse il latifondo e creò consistenti piccole proprietà contadine: venne applicata la previsione contenuta nell’art. 44 per quanto riguarda la proprietà della terra coltivabile.
Il secondo si ebbe nel 1962 con la nazionalizzazione dell’energia elettrica: fu il solo caso di applicazione dell’art. 43 sulle nazionalizzazioni, articolo della cui perdurante vigenza, sia pure come astratta possibilità, oggi, alla luce dell’Unione europea, è lecito dubitare (per avere conferma del dubbio chiedetevi se oggi, dopo aver liberalizzato produzione e distribuzione dell’energia elettrica, sarebbe ancora possibile giuridicamente nazionalizzarla di nuovo).
Va però ricordato che in ogni caso le espropriazioni sono possibili solo previo indennizzo: cioè la proprietà non può essere tolta, può solo cambiare forma (può essere diminuita se l’indennizzo non corrisponde al prezzo di mercato; dipende dunque da una scelta politica, ma in ogni caso l’indennizzo, come ha ribadito la Corte costituzionale, non può mai divenire simbolico o irrisorio, ed anzi deve conservare una seria consistenza).
14. Il sistema tributario (art. 53)
Una volta garantita la proprietà privata dei mezzi di produzione, la iniziativa economica privata, il mercato, la libera concorrenza, non c’è dubbio che la distribuzione della ricchezza viene anzitutto e fondamentalmente determinata da queste entità collegate (che nel loro insieme danno vita al sistema economico). Le possibilità per le autorità pubbliche di intervenire su questa distribuzione, modificando la distribuzione che il mercato produce spontaneamente, sono molto limitate anzitutto dalla stessa Costituzione, e cioè sul piano giuridico, come già visto, e poi nella pratica, anche quando il potere di intervenire è previsto in Costituzione (il potere, si badi, non il dovere, di intervenire, che non è previsto in questi termini). Dove invece le autorità pubbliche hanno virtualmente un grande potere sul piano giuridico è in quella redistribuzione che avviene mediane i tributi.
L’art. 53, se letto in termini di possibilità legali che si aprono al potere pubblico, permette un ampio margine di intervento, addirittura senza limiti massimi. “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, dice il primo comma: poiché l’entità delle spese pubbliche è una variabile che dipende dalle scelte politiche (e del resto la Costituzione, con l’art. 3, secondo comma, e tutti gli altri articoli che in qualche modo sono articolazione del generale programma contenuto nell’art. 3, chiede e comunque permette interventi sempre più ampi e incisivi della Repubblica, e cioè delle autorità pubbliche), e poiché la capacità contribuiva non determina né il limite inferiore, al di sotto del quale non c’è capacità contributiva (salvo il caso ovvio di chi letteralmente non ha nulla), né i diversi livelli fino al massimo, che in base all’art. 23 e al secondo comma dello stesso articolo 53 saranno stabiliti dalla legge ispirandosi al criterio della progressività, il legame tra obbligo tributario e capacità contributiva si riduce al fatto che a parità di capacità contributiva (stabilita dalla legge) deve corrispondere eguale obbligo tributario.
Il comma secondo dell’art. 53 dice che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. La disposizione è necessariamente e volutamente generica: anzitutto prende atto che quello tributario è un sistema, un insieme, si spera razionalmente coordinato, di molti tributi. Presuppone che proprio per questa ragione non ogni tributo può essere progressivo, ma è il sistema, e cioè l’insieme, che può e deve esserlo. Si possono da queste due osservazioni trarre almeno due conseguenze, una in termini giuridici, l’altra in termini di fatto: a) in termini giuridici vi deve essere almeno un tributo progressivo, e questo tributo progressivo è necessariamente quello sul reddito complessivo di ciascun individuo; b) la valutazione se il sistema è veramente progressivo, o piuttosto proporzionale, o addirittura regressivo (come pare certo sia regressivo, e molto regressivo in Italia) è una valutazione che si può fare solo ex post e solo presuntivamente (il che vuol dire che in termini giuridici la disposizione del secondo comma dell’art. 53, per quanto riguarda il sistema nel suo complesso, non è una disposizione giuridica, ma una speranza o una promessa disarmata). Venendo poi all’imposta progressiva sul reddito delle persone fisiche (o IRPEF), una volta stabilito che deve essere progressiva e quindi deve contenere almeno due scaglioni (contro una proposta ricorrente di una imposta unica proporzionale), la decisione su quanto progressiva e su quanti scaglioni è tutta politica. Sta di fatto che in Italia, e in tutto il mondo, la tendenza è quella di ridurre gli scaglioni, di ridurre l’aliquota massima, di esonerare dalla dichiarazione dei redditi, sostituendola con una imposta fissa, proprio quelli che hanno maggiore capacità contributiva, e cioè i redditi da investimenti in titoli.
Da qui un’altra conclusione fondamentale, questa volta in termini di reddito e non di proprietà: giuridicamente non esiste limite massimo al reddito che un individuo può raggiungere. Anche in questo caso non ci si faccia ingannare dal fatto che per alcuni tipi di lavoro sono stabiliti tetti massimi nelle retribuzioni. Questi tetti riguardano, se ci sono, specifici lavori, ma non riguardano la quantità complessiva di reddito che si può ottenere da svariate fonti. Per conseguenza, come nel caso della proprietà, non c’è limite alle differenze nel reddito, ed il ventaglio può ampliarsi senza limiti.
E’ pacifico che questo ventaglio tra minimo e massimo è enormemente cresciuto negli ultimi decenni e si accresce ancora ogni anno.
Ognuno è libero di valutare come crede questo fenomeno. Quello che mi pare non si possa dire con un minimo di decenza e di verità è che questo andamento sta realizzando gli obiettivi del secondo comma dell’art. 3 della nostra Costituzione, quando è ovvio che queste estreme differenziazioni in termini di reddito e di proprietà non solo non hanno tolto gli ostacoli di ordine economico e sociale ma li hanno resi ancora maggiori.
15. Eguaglianza sostanziale e principio di sussidiarietà
Il nuovo articolo 118, introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, nel quarto comma dispone: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.” La disposizione nomina il principio di sussidiarietà, ma non lo definisce. L’ideologia dominante chiarisce a sufficienza che cosa si intende con esso: c’è qualcuno, singolo o associato, persona o ente collettivo, a cui spetta in prima battuta svolgere una determinata attività; qualcun altro (nel nostro caso gli enti pubblici nominati nell’articolo) può intervenire in aiuto dei primi, ma se e solo se questi titolari della attività dimostrano di non essere in grado di raggiungere i risultati giudicati necessari e sufficienti. Il principio si applica a qualunque attività di interesse generale, riguarda sia gli enti non profit sia i soggetti che perseguono il profitto, non dice quali sono i risultati rispetto ai quali misurare la insufficienza o mancanza di iniziativa privata (in particolare qui ci interessa notare che, a differenza del secondo comma dell’art. 3, non si fa cenno né alle eguale libertà, né alla eguaglianza sostanziale, né alla partecipazione alla vita politica, economica e sociale).
E’ evidente che nel testo costituzionale è stata inserita una contraddizione tra due linee di condotta, tutte e due a parole egualmente ammesse: quella disegnata dall’art. 3, secondo comma, e quella disegnata dall’art. 118, quarto comma. La prima parte dalla constatazione che già esiste una diseguaglianza in termini di libertà e di risorse economiche, culturali e sociali, e fa obbligo incondizionato alla Repubblica di rimuovere tali disuguaglianze; il secondo autorizza le autorità pubbliche ad intervenie se e solo se i cittadini non raggiungono autonomamente risultati lasciati del tutto indeterminati (e quindi affidati per la loro identificazione e quantificazione alle decisioni politiche delle maggioranze). L’obbiettivo del quarto comma dell’art. 118 è quello di una società che si autogoverna mediante le decisioni dei privati, singoli e associati, e di autorità pubbliche che intervengono solo in casi limitati ed eccezionali. L’art. 3, secondo comma, autorizza, sia pure genericamente ed in contraddizione con altri articoli del testo, le autorità pubbliche ad entrare, se necessario, anche nella distribuzione della ricchezza determinata dal mercato, e comunque obbliga le autorità pubbliche a ridistribuire la ricchezza tanto quanto è necessario per raggiungere l’eguaglianza sostanziale; il principio di sussidiarietà prende come base la distribuzione della ricchezza che si determina spontaneamente nel mercato, e autorizza forme di redistribuzione della ricchezza già distribuita dal mercato solo in casi limitati ed eccezionali, da ridurre quanto più è possibile.
Unite a questo ideale di società la constatazione per cui viene garantita dalla Costituzione (e da tutte le costituzioni del mondo capitalistico) la differenziazione senza limiti in proprietà e redditi, come già detto, e ditemi voi che cosa a che fare l’ideale di società prevista dal comma secondo dell’art. 3 con l’ideale di società prevista dal quarto comma dell’art. 118, e, cosa ancora più importante, con l’effettivo andamento della società italiana nel corso di questi ultimi sessanta anni e nel prossimo prevedibile futuro, se e finché assisteremo al dominio incontrastato e onnipervasivo del mercato e delle sue leggi.
[1] Il nome, di per sé, non compromette la diversa e dibattuta questione se le norme programmatiche sono immediatamente precettive oppure costituiscono direttiva per il solo legislatore, cosicché finché il legislatore non emana le leggi di attuazione tali norme non sono giuridicamente vincolanti per tutti gli altri soggetti dell’ordinamento. La questione che, come è noto, suscitò vaste ed accanite polemiche nei primi anni della Costituzione, in assenza della Corte costituzionale, è stata risolta definitivamente dalla Corte nel senso che anche le norme programmatiche sono immediatamente precettive per tutti i soggetti dell’ordinamento. Anche in tal caso resta però vero che le norme programmatiche determinano la illegittimità costituzionale di eventuali leggi in contrasto con esse, guidano la interpretazione delle norme costituzionali ogni volta che è necessario applicarle, ma non riescono, perché nessuno al posto del legislatore può farlo, a tradursi in decisioni e programmi in positivo, se e finché il legislatore con legge non attua i programmi e realizza gli obbiettivi previsti nelle norme appunto programmatiche. Per conseguenza spetta al legislatore, e in principio, salvi i casi di manifesta irragionevolezza, solo al legislatore, stabilire il quantum di realizzazione, le risorse da impegnare, le modalità di attuazione, e così via.
[2] Così ad es. dal sito dell’Istituto Nazionale Previdenza Sociale (che naturalmente si basa sulla legislazione vigente) si apprende che, a parte qualche eccezione, dal 1° gennaio 2008 la durata dell’indennità di disoccupazione passa da 7 ad 8 mesi al massimo, che l’importo è pari al 40% delle retribuzione percepita nei tre mesi precedenti, e così via. Limitazioni analoghe per quanto la cassa integrazioni ordinaria e quella straordinaria.
[3] Formulo in tal modo una critica radicale nei confronti di quella tesi, sostenuta in alcuni ambienti di sinistra, che si batte per la introduzione del c.d. reddito di cittadinanza: a mio parere, nella logica interna al testo costituzionale, e secondo buon senso e secondo giustizia, prima viene il dovere di lavorare, e con esso il diritto a lavorare un tempo sempre minore per permettere a tutti di usufruire del diritto al lavoro, e solo come rimedio temporaneo e transitorio può sussistere anche il reddito di cittadinanza, in quei brevi periodi nei quali, per motivi pratici, qualcuno sta cercando lavoro e non lo trova.
[4] Vedi le leggi 24 novembre 2006 n. 286 e 27 dicembre 2006 n. 296. Non tratto qui dei molti modi, legali o illegali, mediante i quali i grandi patrimoni sfuggono ad ogni controllo.
Note:
*
Testo provvisorio della Relazione al Convegno della Rivista su La
Costituzione ha 60 anni: la qualità della vita sessant’anni
dopo, Ascoli Piceno, 14-15 marzo 2008.